Dalla capacità distraente dell’illusionista dipende la riuscita del gioco di prestigio: qualcosa di simile avviene dopo un’elezione, allorquando l’interpretazione dei risultati è condizionata da dove viene indirizzato lo sguardo. Come nella prestidigitazione, si può essere tratti in inganno e trascurare gli spostamenti reali delle carte sul tavolo.
Nel caso di queste elezioni europee, conviene allora adottare un punto di visuale meno convenzionale e anziché guardare a leader o partiti, spostarsi sui comportamenti degli elettori per provare a svolgere qualche considerazione su cosa emerge dal loro esito.
Se ci si sottrae alla lettura, per l’appunto “distraente”, proposta da gran parte dei media (stampa, tv, web) tesa a descrivere un duello fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein, nel segno di una presunta modernità riconoscibile anche nell’emersione di donne leader, è possibile svolgere un ragionamento forse un po’ meno consolante circa i caratteri della società italiana tratteggiati dal voto espresso nelle urne.
A non esprimersi sono stati quasi ventotto dei cinquantuno milioni elettori: ben oltre la maggioranza assoluta (siamo attorno al 55% effettivo, tenuto conto dei voti nulli). Per la prima volta è stata superata, in un’elezione nazionale, la soglia della metà di astenuti del corpo elettorale: per quanto in tanti insistano sulla irrilevanza del dato dal punto di vista degli effetti pratici, considerando il non voto incapace di incidere sugli eletti, è però indubitabile che l’unicità dell’evento abbia – anche politicamente – un rilievo.
Tanto più perché viene all’indomani di un’insistente campagna pro-voto, per la quale si è speso in prima persona il Capo dello Stato intervenendo più volte nelle settimane precedenti a sottolineare la cruciale importanza dell’appuntamento elettorale europeo. Tale non è apparso invece a più della metà degli elettori, non solo italiani ma dell’insieme dei 27 Paesi coinvolti, a conferma della profonda crisi di credibilità in cui versa l’UE.
Del resto, il Parlamento di Strasburgo non si è certo adoperato per smentire la sfiducia nei suoi confronti: l’inutilità (per non dire la nocività) dei provvedimenti emanati e lo scandalo delle pressioni lobbistiche sui suoi componenti, accusati di essere a libro paga di nazioni come il Qatar, di certo non hanno contribuito a rafforzarne l’immagine presso gli elettori.
Per ciò che riguarda l’Italia, la crescita dell’astensione va analizzata anche dal punto di vista territoriale: i votanti sono calati di più nel nord-est (-10%) e nel nord-ovest (-8%), aree tradizionalmente di maggior partecipazione; mentre addirittura nelle isole sarebbero invece lievemente aumentati rispetto a cinque anni fa (+0,5%). È un altro indice significativo politicamente, perché testimonia come il distacco si sia verificato presso settori di cittadini che non si sono recati ai seggi a seguito di scelte motivate, che derivano dal respingimento dell’offerta avanzata dalle forze in campo.
Due sono, infatti, i motivi dell’aumento dell’astensione: da un lato, la convinzione che i processi politici siano talmente sclerotizzati da ritenere che il proprio voto non abbia alcuna influenza per modificarli; dall’altro, l’impossibilità di trovare sulla scheda elettorale l’opzione che dimostri di essere in grado di risolvere i problemi presenti e soddisfare le domande emergenti nella società.
Fattori che si rinvengono pure nei voti usciti poi dalle urne l’8-9 giugno, che – al di là della polarizzazione fra due schieramenti, contraddistinti da eccessi di contrapposizione – sono stati più il risultato di scelte in negativo, che non in positivo.
A guardare la mappa del voto, affiora un’Italia frenata e zavorrata da politiche ambigue e settarie, dove a sinistra si scoperchia dai sarcofaghi l’estremismo violento da katanga (il servizio d’ordine dei sessantottini), occhieggiando al fanatismo anti-occidentale e anti-ebraico, mentre a destra ridanno fiato e voce a polverosi, quanto improbabili, slogan da “maggioranza silenziosa”: quasi che non si riesca a sradicarsi dalle faglie inquinate degli anni Settanta del secolo scorso.
Non è un caso, perché è diretta conseguenza del fatto che un’informazione asservita e omologata agli interessi dei poteri dominanti, restii a ogni possibile cambiamento che minacci la loro posizione, ha avvelenato i pozzi di rifornimento di una cultura laica e liberale coi germi della faziosità e del ribellismo inconcludente.
La mancata soluzione della “questione liberale” in Italia, tante volte evocate su «Quaderni Radicali» e su «Agenzia Radicale», impedisce alle forze politiche nel loro insieme di essere convincenti nel formulare un progetto riformatore capace di dare sostanza a un vero Stato di diritto, dove la legge sia uguale per tutti (senza quote o pesi diversi), la divisione dei poteri sia rispettata sempre da tutti i soggetti istituzionali e prevalga una politica che non sia succube di astratti ideologismi, contrari al principio di realtà e alla libertà delle persone.
(foto Ansa)
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