Per il 23 maggio, giorno dell’anniversario della morte di Giovanni Falcone, del quale fu prezioso collaboratore nell’indagine che condusse al maxi processo contro Cosa Nostra, il generale dei CC Mario Mori è stato convocato dalla Procura di Firenze che gli ha inviato un avviso di garanzia con l’accusa di non aver “impedito… gli eventi stragisti [del 1993] di cui aveva avuto anticipazioni”.
Il generale, che oggi ha 85 anni, ha comunicato che non andrà a Firenze per impegni del suo avvocato Basilio Milio.
Mori è appena uscito assolto dalla lunga odissea giudiziaria sulla presunta trattativa Stato-Mafia, dopo aver trascorso gli ultimi ventidue anni nei tribunali per difendersi da accuse per lo più mosse in base a teoremi giudiziari, scaturiti non tanto da fatti concreti quanto da ostilità pregiudiziali.
Ostilità alimentatesi e cresciute a partire dalle risultanze oggettive prodotte dalle indagini condotte dai carabinieri del ROS (Dossier Mafia-appalti), perché contraddicevano l’operato di alcuni magistrati inquirenti palermitani funzionale più a costruire una narrazione che non ad accertare “fatti e individuare responsabilità”, come ricordato recentemente dal procuratore di Avellino Domenico Airoma.
Sembra proprio che questo ennesimo procedimento promosso dai pm fiorentini (gli stessi più volte oggetto di contestazioni nelle cronache recenti) risponda quasi all’esigenza di non darla vinta all’ufficiale dei CC, specie se si considera l’esilità dell’impianto accusatorio.
In sostanza, se in precedenza al generale era stato contestato di essersi attivato presso i boss di Cosa Nostra per porre fine allo stragismo, ora si insinua che non avrebbe fatto nulla per evitare gli attentati e di aver ignorato gli avvertimenti giunti da informatori, consentendo che morissero degli innocenti.
Va aggiunto che l’avviso di garanzia è inviato sulla base delle dichiarazioni rilasciate da Paolo Bellini (a suo tempo auto-accusatosi di essere il solo assassino di Alceste Campanile che invece fu ucciso nel 1975 da più persone ed ora condannato per la strage di Bologna del 1980) e dal mafioso – defunto tre anni fa – Angelo Siino, che inizialmente rivelò a Mori il dossier mafia-appalti e poi ritrattò per collaborare con la procura di Palermo nella inchiesta sulla presunta trattativa, finita com’è noto nel nulla.
Il comportamento dei promotori di quest’ultima accusa al generale Mori ricorda da vicino quello del procuratore Olivares dopo l’assoluzione di Tortora, per il quale ancora nel 1987 nulla contavano i risultati dell’appello trovando consenziente nel suo pregiudizio colpevolista anche Elena Paciotti, che negò alle figlie del presentatore ancora nel 1994 il risarcimento per le ennesime diffamazioni contro il padre pronunciate dal pentito Melluso.
Da oltre vent’anni, il generale Mario Mori – come scrive Mattia Feltri su «La Stampa» del 22 maggio – vive “sotto sequestro” di iniziative processuali quanto meno discutibili, che lo hanno ridotto nella condizione di “presunto colpevole a vita”.
Oggi, cosa mai avvenuta in precedenza, il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri ha rilasciato una nota stampa nella quale “esprime la sua vicinanza nei confronti di un Ufficiale che ha reso lustro in Italia e all’estero, confidando che anche in questa circostanza riuscirà a dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati”.
È il segno di quale danno possa subire la credibilità della magistratura, a causa di comportamenti all’insegna della pervicacia e del pregiudizio estranei all’esercizio responsabile della giustizia proprio di quella che è la massima istituzione a salvaguardia dal sopruso.
È augurabile che, come asserito dal procuratore di Avellino Domenico Airoma, i magistrati rinuncino a sentirsi investiti “di un compito salvifico” e tornino a fare il loro “dovere, quello che gli è affidato dalla Carta costituzionale”.
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