L’ennesima surreale polemica sollevata da Enrico Letta a proposito delle recenti nomine effettuate dal governo Meloni merita qualche considerazione.
Non importa qui rilevare come, ancora una volta, il segretario dimissionario del PD – un partito che negli ultimi dieci anni ha “occupato” tutto l’occupabile dei posti pubblici, dalla Rai agli enti erogatori di servizi, senza nessun riguardo per il reale peso rivestito nelle istituzioni – dimostri un assoluto sprezzo del ridicolo, quanto piuttosto che la questione del rapporto tra direzione politica e gestione amministrativa andrebbe impostata in modo del tutto diverso che nel passato.
Dal passato regime, la Repubblica dei partiti ereditò la prassi di considerare gli apparati pubblici sia come uno strumento di controllo sulla società, in allineamento agli indirizzi che si intendevano dare, sia come emanazioni intimamente collegate coi partiti medesimi, attraverso il rapporto di dipendenza che scaturiva dai meccanismi di lottizzazione delle cariche.
Questa duplice disposizione era evidentemente in netto contrasto con quanto proclamato dalla Costituzione circa i funzionari della pubblica amministrazione (artt. 97-98), dal momento che insidiava i principi di imparzialità e di esclusività del servizio nell’interesse dei cittadini.
Quando i partiti tradizionali sono stati terremotati dalle inchieste di Mani Pulite e l’intero sistema politico è rimasto privo della nervatura di sostegno che gli derivava dall’ordine post-Jalta, quella prassi non è stata affatto abbandonata, ma ha assunto ulteriori aspetti che ne hanno aumentato tanto la contro-produttività che i livelli di arbitrio e incontrollabilità.
In pratica si è esteso ai settori burocratici quanto già si era manifestato nella magistratura, vale a dire una trasformazione in senso a-costituzionale della loro natura. Come in molti uffici giudiziari si è assistito a forzature delle procedure e ad abusi nell’esercizio delle funzioni, che hanno fatto debordare dall’alveo degli originari compiti istituzionali, altrettanto è accaduto per i funzionari pubblici.
Ciò non ha per nulla coinciso con una proficua valorizzazione del loro grado di indipendenza, ma ha dato luogo a un inedito fenomeno per cui in molti casi si sono formate filiere di potere tra i detentori degli incarichi amministrativi e particolari segmenti della rappresentanza politica.
Di conseguenza, è sostanzialmente rimasta immutata la consuetudine di esercitare le prerogative istituzionali in funzione del vantaggio che poteva ricadere su quanti aderivano a tali condizionamenti ed accordi. Poiché, per di più, questi ultimi, con il passare del tempo si sono sempre più svincolati da criteri di rispondenza agli interessi collettivi, o quanto meno di significativa rappresentatività, abbiamo assistito a una sorta di “privatizzazione” delle finalità e degli obiettivi perseguiti all’interno degli apparati burocratici.
Niente di nuovo sotto il sole – si dirà – visto che Augusto Frassineti già negli anni ’50, nel libro postumo Lo spirito delle leggi (Il Mulino; 1989), raccontava di come negli uffici pubblici provvide “manine” assicuravano le modifiche normative per ottenere privilegi arbitrari. Soltanto che oggi la situazione si complica ulteriormente, in quanto la libertà d’azione dei funzionari va oltre gli espedienti, riuscendo a coartare o deviare interi processi decisionali e, perfino, i corretti percorsi politico-istituzionali.
Se ne è potuto avere sentore anche in occasione dell’ultima elezione presidenziale, quando fu promossa la candidatura di Elisabetta Belloni, nata forse per rispondere più all’esigenza di una rimozione dal suo incarico di direttore del Dipartimento Informazione e Sicurezza, coltivata dentro gli stessi servizi, che non dalle dichiarate intenzioni dei proponenti.
Esiste dunque il problema di ricondurre entro gli argini della correttezza istituzionale gli atti e i comportamenti dei grandi burocrati dello Stato. Quando il ministro della Difesa, Guido Crosetto, dichiara che “non si può pensare di fare politiche nuove e diverse, se nei posti chiave tieni funzionari che… servono ideologie di cui noi rappresentiamo l’alternativa”, fa una considerazione ovvia.
Ma non fa l’esatta fotografia di quella che è la situazione reale, che è assai più compromessa perché presenta non tanto l’asservimento a ideologie, quanto a interessi specifici non coincidenti con alcun progetto di natura politica e quindi di pubblica utilità.
D’altra parte, pensare di affrontare il problema esercitando semplicemente quanto previsto dalla legge Bassanini del 2001, che dà facoltà ai nuovi governi di procedere al ricambio dei ruoli dirigenziali, secondo una maldestra imitazione dello spoil system americano priva del tutto di un’adeguata consapevolezza liberale, perché declinata invece secondo i criteri di cooptazione propri della partitocrazia, significherebbe rinunciare a un reale cambiamento di paradigma.
Vanno rimosse in primo luogo le condizioni che permettono oggi ai funzionari di esercitare un indebito ruolo di condizionamento nell’attuazione delle decisioni. Dai funzionari non va pretesa una fedeltà di tipo ideologico o partitico, bensì lealtà verso il ruolo che si riveste. Ma soprattutto occorre disboscare l’intricata selva di normative contrastanti, nei cui meandri è poi possibile esercitare un potere (di blocco o di facilitazione) che prescinde da criteri di oggettività.
Nell’esercizio di tale potere ha il suo habitat ideale la corruzione pubblica e per questo una riforma della burocrazia richiede, innanzi tutto, che ai pubblici funzionari non siano consentiti giudizi di merito ma solo di legittimità. Questa dovrebbe essere la principale preoccupazione per un governo che intenda davvero cambiare in meglio il Paese.
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