Nel saggio Controcorrente (Piemme; 2021), Matteo Renzi difende la politica da lui adottata in questi mesi e per lo più rivendica le qualità della sua azione di governo passata. Ma riconosce pure di avere sbagliato in due importanti occasioni, quando ha scelto i nomi dei vice-presidenti del CSM: prima Legnini e poi Ermini, entrambi dal senatore considerati col senno di poi inadatti all’incarico.
I due hanno svolto le veci del Capo dello Stato dentro l’organo di autogoverno della magistratura e ciò lascia intuire che la delusione di Renzi forse possa estendersi anche a chi, dal Colle più alto, ha soprasseduto dal pronunciarsi nonostante i gravissimi scandali che hanno investito molti protagonisti degli uffici giudiziari italiani, a cominciare dai consiglieri togati di Palazzo dei Marescialli.
Alla nomina di Sergio Mattarella al Quirinale si giunse nel 2015 proprio per iniziativa di Matteo Renzi che, optando per l’allora membro della Corte Costituzionale ed ex esponente della sinistra dc demitiana, in pratica rottamò l’intesa del Nazareno con Berlusconi alla quale aveva lavorato a lungo nei mesi precedenti.
Mattarella fu così eletto solo coi voti del centro-sinistra a sostegno del governo di allora presieduto proprio da Renzi. Dopo Giorgio Napolitano, egli è stato dunque il secondo presidente della Repubblica nominato da poco più della metà dei rappresentanti di un Parlamento eletto con sistema maggioritario e, quindi, lontano dal coincidere con la maggioranza assoluta del corpo elettorale.
È questo un inconveniente che abbiamo ereditato dai cambiamenti delle leggi elettorali introdotti dal 1994 in poi, lasciando invariato l’assetto costituzionale originario che era invece fondato su un sistema di rappresentanza proporzionale. Non è un inconveniente da poco, dal momento che una figura di garanzia quale il Presidente della Repubblica ha finito così per essere invece caricata di una connotazione diversa.
Per quanti sforzi possano fare dal Quirinale a difesa delle prerogative originarie, inevitabilmente ciò ha dato luogo a comportamenti oggetto di perplessità ed ha avuto riflessi indubbi sulla deriva presidenzialista degli ultimi mandati segnalata in più occasioni da studiosi e commentatori.
A sei mesi dalla prossima elezione del Capo dello Stato, ci troviamo ora a un faticoso tornante del percorso politico e istituzionale che ad essa conduce. Un primo dato problematico è rappresentato dal fatto che la nomina del Presidente avviene quando il governo del Paese è impegnato nella complessa gestione del Piano economico di ripresa. Vi è chi paventa che alla nomina del Presidente della Repubblica possa seguire un anticipo delle elezioni politiche, mettendo così in fibrillazione la coerenza dell’agire politico conseguente. Per questo è iniziato un tam tam progressivo sui media in favore di una riconferma di Mattarella, ripetendo l’eccezione già adottata con il bis di Giorgio Napolitano fra il 2013 e il 2015.
Va osservato, tuttavia, che non sono poche tra le forze politiche coloro che steccano rispetto al coro “Resta con noi” rivolto all’attuale presidente. In una recente intervista Maria Elena Boschi, capogruppo di Italia Viva – il partito guidato da Renzi – riferendosi all’eventuale proseguimento del mandato, ha dichiarato che “non è il caso di tirare la giacchetta a Mattarella”.
Da parte sua il neo-presidente del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, pare attratto dall’ipotesi di anticipare il voto al 2022 proprio per verificare lo stato del radicamento della formazione pentastellata e non rischiare di sbriciolare consensi facendo trascorrere tempo. E lo stesso vale per i partiti del centro-destra, tanto quelli oggi al governo (FI e Lega) preoccupati di un lento logorio, quanto quello all’opposizione (Fratelli d’Italia) desideroso di capitalizzare gli avanzamenti registrati nei sondaggi. Infine, pure il PD è interessato a rimodulare i gruppi parlamentari per sfoltirli delle presenze di ex-renziani e rafforzare così il neo-segretario Enrico Letta.
Il secondo dato critico di questo passaggio, a nostro avviso ancor più rilevante, consiste nella condizione in cui l’elezione del Capo dello Stato sta per avvenire. Il Parlamento oggi in carica è di fatto delegittimato, poiché il referendum costituzionale del 2020 ne ha modificato la composizione riducendo il numero dei parlamentari. L’elezione di febbraio 2022 porterà al Quirinale per sette anni un candidato scelto da deputati e senatori, non solo in contrasto con le maggioranze reali presenti oggi nel Paese (fatto abbastanza consueto) ma anche non corrispondenti al dettato costituzionale approvato dai cittadini a settembre 2020.
Per questi motivi, a maggior ragione, sarebbe quanto mai necessario che per lo meno si pervenisse alla scelta di una personalità che abbia il più vasto consenso e che scaturisca già entro i primi tre scrutini.
A tal fine andrebbe evitato di confondere ancor di più le acque, subordinando la scelta del nome giusto alle necessità di governo o alle tattiche da campagna elettorale. Il primo obiettivo è quello di individuare una personalità che possa far convergere l’adesione massima possibile, non abbia dimostrato in passato parzialità né paludamenti eccessivi. È un identikit difficile da disegnare, sebbene non impossibile e forse più prossimo di quanto si creda.
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