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18/11/24 ore

Cento anni fa nasceva Leonardo Sciascia…


  • Luigi O. Rintallo

Cento anni fa (Racalmuto, 8 gennaio 1921) nasceva Leonardo Sciascia. Spesso, in questi anni, è capitato di domandarci quale sarebbe stato il suo giudizio, quali riflessioni avrebbe espresso. Di sicuro, nell’asfittico ambito che contraddistingue il dibattito pubblico italiano, la sua mancanza pesa e priva di un punto di riferimento tutti noi.

 

Sciascia figura certamente tra i massimi autori del Novecento, a dispetto del riduzionismo cui è stata sottoposta la sua opera da parte di tanta nostra critica letteraria. Non è stato così fuori d’Italia, dove non si è esitato a riconoscere la portata universale dei suoi libri.

 

Non a caso, il saggista messicano Federico Campbell in un volume – di cui riproponiamo di seguito la recensione – accosta il nome dello scrittore siciliano a quello di Camus o Borges.

 

Autore civile, coscienza critica di un Paese assetato di verità, Leonardo Sciascia ha saputo descrivere con lucidità gli eventi e battersi senza paura contro il tartufismo dei faziosi.

 

Gli stessi che, senza pudore, fingono di appropriarsene per snaturare il suo pensiero.

 

Tenace difensore dell’autonomia e dell’indipendenza di giudizio, Leonardo Sciascia continua ad offrirsi come esempio per quanti non si stancano di interpretare e confrontarsi con la realtà, senza sottostare ai dettati del conformismo intellettuale che svilisce la cultura del nostro tempo. (L.O.R.)

 

 

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Sciascia, la memoria di uno “scrittore politico”

 

di Luigi O. Rintallo

 

 

Per gli scrittori, non è raro riportare nelle opere circostanze e vicende della loro vita reale. A Leonardo Sciascia è toccato viverle – a distanza di qualche anno – dopo averne scritto in un romanzo. Ci riferiamo all’episodio finale de Il contesto (1971), quando lo “scrittore impegnato” Cusan dialoga con il vice-segretario del Partito Rivoluzionario all’indomani del duplice omicidio del segretario del partito Amar e del protagonista del libro, l’ispettore Rogas.

 

Mentre lo scrittore Cusan vorrebbe che si rivelasse il complotto scoperto dall’amico Rogas, il suo interlocutore politico gli replica che va anteposta la ragione di partito. Della “ragione di partito” sarà vittima, nove anni dopo la pubblicazione del libro, lo stesso Sciascia, quando il 28 maggio 1980 il segretario del PCI Enrico Berlinguer lo querelò per diffamazione poiché lo scrittore, eletto nel ’79 deputato radicale, durante una seduta della commissione parlamentare sul caso Moro, riferì che Berlinguer – in un incontro avvenuto il 6 maggio 1977 alla presenza del pittore Renato Guttuso – parlò di collegamenti fra le Brigate rosse e la Cecoslovacchia.

 

Il processo che ne seguì non accertò nulla e si concluse con il non luogo a procedere contro Sciascia, perché “non perseguibile” ai sensi dell’art. 68 della Costituzione sull’immunità dei parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Un modo per chiudere il caso, visto che Sciascia al pari dei testi a favore non furono nemmeno ascoltati dai magistrati, i quali agirono in ossequio appunto alla “ragion politica”. Si contentarono dell’ “escussione” di Guttuso che, tra verità e omertà di fazione,optò per la seconda.

 

La querela del segretario del PCI era una querela contro la verità e aveva un evidente scopo dissuasivo, che riproduceva l’identica situazione del Contesto ben sintetizzata dal film che ne ricavò Francesco Rosi, Cadaveri eccellenti (1976), nella battuta conclusiva che rovesciava la massima gramsciana: “la verità non è sempre rivoluzionaria”.

 

Proprio degli interrogativi e dei dubbi connessi al rapporto fra “verità e impostura” nell’esercizio del potere, è sostanziata l’intera opera di Leonardo Sciascia che per questo merita a pieno la qualifica di “scrittore politico”, ancor più delle altre che hanno accompagnato la sua più che trentennale attività. Lo scrive Gianfranco Spadaccia nella prefazione alla traduzione italiana del libro La memoria di Sciascia (Ipermedium libri; pp. 220) di Federico Campbell (1941-2014), il saggista messicano che ha dedicato allo scrittore siciliano questo volume uscito in edizione originale nel 1989, l’anno in cui Sciascia finì di vivere.

 

Con il suo testo, Campbell ha contribuito in modo determinante a diffondere l’opera di Sciascia in Sudamerica, sottolineando la sua universalità che va ben al di là dei confini di polemica interna entro i quali taluni critici italiani hanno provato a restringerla. È, infatti, singolare come ciò sia avvenuto quasi in coincidenza con l’ostracismo che Sciascia ha invece patito in Italia, dove dapprima si è tentato di estrometterlo da un ipotetico “canone letterario” nazionale e poi, dopo che nel 1987 l’autore del Giorno della civetta denunciò i rischi dell’anti-mafia parolaia, addirittura dalla cosiddetta “società civile”.

 

Dal libro di Campbell emerge come Messico e Sicilia abbiano comuni eredità, tanto da riconoscere nell’opera di Sciascia temi affatto familiari: dalla constatazione che la vita politica di entrambi i Paesi è dominata dalla simulazione, per finire con la denuncia della sfiducia nelle idee che è all’origine del rifiuto di ogni cambiamento.

 

In una intervista, Sciascia così si esprimeva: “Non credere nelle idee… ha impedito alla Sicilia di andare avanti. Il credere che il mondo non potrà mai essere diverso da com’è stato. Questa sfiducia nelle idee, questa mancanza di idee, ormai si proietta su tutto il mondo e in questo senso la Sicilia ne è diventata la metafora”.

 

In quanto metafora universale, i romanzi e i racconti di Sciascia sono letti da Campbell in una carrellata che evidenzia come attraverso la tecnica dell’inchiesta, dell’indagine documentale, si sviluppi “una meditazione critica sulla giustizia”. Dove quest’ultima è da interpretarsi quale nutrimento essenziale della democrazia: se viene a mancare l’una, l’altra non può sopravvivere.

 

La “democrazia bloccata” vissuta dall'Italia del bipolarismo coatto DC-PCI somiglia a quella del Messico, per sessant’anni governato sempre dal Partito Rivoluzionario; così come uguale matrice sembra contraddistinguere i delitti di Stato verificatisi in entrambe le nazioni.

 

I romanzi-inchiesta di Sciascia descrivono alcuni di questi fatti, ma – come rileva Spadaccia – “Sciascia se ne avvale non per disvelare i mali, gli errori del passato ma per indagare sui mali, sui crimini, sulle croniche, sistematiche illegalità del presente”. Nelle finzioni narrative tanti hanno colto un’ispirazione profetica, ma in realtà altro non si trattava che di lucidità e profondità dello sguardo, “frutto di una capacità di analisi – prosegue Spadaccia – e di visione letteraria e politica, spinta alle sue estreme conseguenze”.

 

Radicato nella sua regione (tanto da non lasciarla per non più di un mese), Sciascia ha saputo fare della Sicilia un surrogato del mondo. Per questo la sua opera ha un respiro internazionale maggiore di quelle di altri autori italiani: è la “sicilitudine” contrapposta al “sicilianismo” del Gattopardo. Nel romanzo di Lampedusa Sciascia vedeva “una stagione di rinascita di quello che meno” amava, vale a dire la “follia siciliana” che si perde nel sonno, cui contrapponeva la speranza illuminista, la convinzione cioè – scrive Campbell – “che la giustizia non può che trionfare, a breve o a lungo termine”.

 

La stessa speranza espressa da Campbell alla traduttrice italiana Elena Trapanese, nell’intervista che chiude il saggio: “alla lunga più che in breve, le idee attecchiscono e se si spengono presto rinascono e si incorporano nel linguaggio di coloro che leggono… Non tutti gli scrittori brillano per le loro idee. Sciascia, al contrario è un romanziere di idee, nella misura in cui lo furono Voltaire o Albert Camus o Borges”. (Agenzia Radicale 14 Luglio 2014)

 

 


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