Ferruccio De Bortoli ha intitolato il suo ultimo saggio Le cose che non ci diciamo (fino in fondo) (Garzanti; 2020): il testo quindi promette di dire verità scomode, quali ad esempio il fatto che lo Stato italiano ha vissuto al di sopra dei suoi mezzi, incrementando oltre misura il debito pubblico; oppure, la considerazione altrettanto ostica della natura ingiusta del nostro sistema fiscale, vessatorio verso tanti contribuenti e incredibilmente lassista con gli ignoti all’agenzia delle entrate.
A un certo punto del libro, De Bortoli affronta anche il tema della scuola e osserva come nessuno tra i Paesi dell’Ocse, durante il lockdown, ha chiuso le scuole per 18 settimane come l’Italia. E qui bisognerebbe chiedere all’autore come mai non si interroghi, fino in fondo, sui motivi per cui sia stato possibile che ciò accadesse soltanto nel Belpaese. Perché non bastano le lacune organizzative o i dati del contagio (non poi così diversi da altre nazioni, dove pure le scuole sono rimaste aperte) a spiegarlo.
A parte sparute dimostrazioni di alcuni gruppi di studenti e insegnanti, non è emersa alcuna vera protesta di fronte alla chiusura delle scuole. È pur vero che, attualmente, la didattica a distanza è attuata solo per le classi delle medie superiori (licei e istituti), ma di certo non si è registrata chissà quale lamentela e opposizione da parte delle famiglie, né tanto meno del personale scolastico.
A voler scavare nel profondo delle motivazioni di un tale comportamento, si deve riconoscere una verità al limite dell’inconfessabile: la consapevolezza che la frequenza a scuola non è poi così importante, in quanto non modifica in modo significativo le prospettive di vita.
Per molti, i cinque anni passati tra i banchi delle superiori trascorrono invano, senza lasciare tracce di rilievo nella propria formazione, né fornire strumentazioni davvero utili per affrontare la successiva fase della maturità e dell’ingresso nel mondo del lavoro. Di conseguenza non ci si può rammaricare più di tanto se viene a mancare qualcosa che non lascia effetti.
Da almeno cinquant’anni la scuola italiana è stata sottoposta a interventi – legislativi e comportamentali – che ne hanno modificato profondamente natura e finalità. Un passaggio decisivo è stato il riordino scaturito dalla riforma del ministro Berlinguer, negli anni ’90, quando esplicitamente i piani delle commissioni di esperti ministeriali attribuivano agli istituti il compito di farsi “contenitori di devianze”, oppure proponevano di “deconcettualizzare” la didattica avviando un drastico processo di semplificazione dei contenuti.
La scuola ha finito così per diventare un secchio bucato, qualcosa di inservibile per lo scopo originario e destinato a essere usato per altro. A questo si aggiunga che la paura di perdere alunni e dei ricorsi ha contribuito a cancellare la linea di demarcazione tra fini e mezzi, cosicché le scuole non servono più a preparare le generazioni future, ma diventano il mezzo per soddisfare altre esigenze.
Anziché formare e istruire assolvono tutt’altre funzioni: alleviare le famiglie dalla cura di una popolazione minorenne, ammortizzare la disoccupazione intellettuale, rilasciare titoli di fatto screditati perché risultanti da percorsi che ignorano la meritocrazia e si completano a forza di promozioni con “debiti scolastici”.
Proprio lo smantellamento del merito all’interno della vita scolastica ha favorito la sostituzione dell’istruzione con l’ignoranza, tant’è che in nome della polemica anti-nozionista registriamo oggi drammatici risultati sul piano cognitivo dei nostri studenti: quasi un terzo di loro, al termine dei dieci anni dell’obbligo scolastico, non è in grado di raggiungere il livello base per la comprensione di un testo (dati dell’osservatorio PISA).
La risposta delle istituzioni, tuttavia, non è stata quella di potenziare gli sforzi per recuperare tali baratri conoscitivi, bensì di ridurre ancor di più le attese rispetto alle prestazioni degli studenti. E così facendo, inevitabilmente, ha finito per prevalere la pigrizia che non ha riguardato solo gli allievi, ma anche gli insegnanti che operano in vista di obiettivi sempre minimi senza più preoccuparsi di alzare lo sguardo al di sopra di un orizzonte limitato.
Poiché nell’ambito istituzionale, come nel complesso della società è mancato il coraggio di guardare in faccia la realtà, ha prevalso l’ultima delle quattro disposizioni negative che – con la paura, l’ignoranza e la pigrizia – hanno impresso alla scuola un sigillo di oggettiva inutilità: la dissimulazione. In suo nome, scolaresche e personale impiegato negli istituti si sono trasformati in attori di una recita tartufesca all’insegna della finzione.
Così come al termine di ogni anno scolastico si fingono “successi formativi” inesistenti, altrettanto finti sono gli intenti riformatori che piuttosto incrementano la bulimia burocratizzante. Se finalmente si prendesse atto dello stato reale della situazione, forse meraviglierebbe di meno la mancata reattività alla chiusura delle scuole.
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