Con l’approvazione del 18 novembre scorso dei documenti preparatori della manovra economica 2021, il governo ha ancora una volta dimostrato di voler soprassedere dal confronto in Parlamento e, di fatto, conferma il processo in corso di deriva anti-parlamentare. D’altronde questo comportamento, per cui si impedisce il dibattito sul bilancio dello Stato tanto dentro la maggioranza che con l’opposizione, risponde alla mistificazione sistematica che contraddistingue l’attuale esecutivo a cominciare dalle modalità con le quali è stata fronteggiata l’emergenza causata dal virus cinese.
Altrettanto mistificatorio risulta essere il proposito, proclamato dopo il vertice di maggioranza del 6 novembre, di durare comunque sino alla fine della legislatura che scade nel 2023. Non tiene conto di una serie di fattori, meritevoli invece di essere attentamente considerati, in specie ai livelli più alti delle istituzioni.
Dopo il referendum che ha approvato la modifica costituzionale della riduzione dei parlamentari, il Parlamento attuale è formalmente non rispondente al dettato della Legge fondamentale e, per quanto si sia in regime di deroga, non va dimenticato l’impegno assunto a ripristinare la conformità delle assemblee alla norma approvata dal corpo elettorale.
Tanto più che nel 2022, tocca appunto al Parlamento eleggere il nuovo Capo dello Stato che rimarrà al Quirinale per i successivi sette anni. È chiaro che se il Presidente della Repubblica dovesse uscire da Camera e Senato attuali si determinerebbe una circostanza di difficile sostenibilità.
La scelta del candidato sarebbe stata effettuata da assemblee non solo divergenti dall’effettiva volontà dei cittadini, perché espressione di maggioranze costruite attraverso alchimie procedurali, ma anche formalmente prive del crisma di legalità che deriva dall’aderenza al dettato costituzionale in vigore.
Di tutto questo, i vertici della Repubblica – a cominciare proprio dal Quirinale – dovrebbero tener conto. Anche perché la situazione di impasse nella quale si rischia di avvitarsi è stata determinata, in parte, proprio da alcune delle decisioni prese nel recente passato.
La nascita del secondo governo Conte, infatti, è stata determinata dall’anomala conduzione della crisi dell’agosto 2019, quando furono scartate le tre opzioni normalmente sul tavolo (rinvio del governo al voto delle Camere; designazione di altro premier; voto anticipato) e ne intraprese una quarta inedita di dare tempo affinché i partiti neo-alleati si accordassero per riconfermare lo stesso premier, alla guida di un governo che aveva ora al suo interno forze che sino al giorno prima gli avevano votato contro in aula: evento mai accaduto in precedenza.
Più che dar luogo a prospettive di “unità costituzionali” o di incameramenti di supporti “responsabili” all’attuale maggioranza, sarebbe opportuno individuare un percorso capace di avviare a soluzione il groviglio di problemi, di natura politica e istituzionale, sui quali è di fatto incagliata l’iniziativa di governo del Paese.
Tenendo conto di due priorità: garantire una reale base di consenso popolare alle azioni che dovranno prossimamente essere intraprese e dare legittimità piena al prossimo candidato che salirà al Quirinale. Per soddisfarle entrambi, è ben difficile pensare che si possa mantenere invariata l’attuale conformazione dell’esecutivo: meglio sarebbe non insistere quindi nei tentativi di dissimulazione.
Le tappe di questo percorso, non necessariamente alternative tra loro, dovrebbero pertanto essere o condurre a una fine concordata della legislatura, cosicché la prossima possa avere una prospettiva ampia di legittimazione, o lavorare per candidature alla Presidenza della Repubblica capaci di garantirsi vasti consensi nelle forze politiche.
° Illustrazione di Emanuele Fucecchi
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