Le dimissioni dei vertici dell'Associazione Nazionale Magistrati non sono state altro che l’ultima certificazione della gravità nella quale versa la giustizia, dopo gli scandali che hanno investito prima la gestione delle candidature dei magistrati nelle varie procure e poi lo stesso CSM.
È emersa una situazione che non può certo essere ridotta ad alcuni episodi di malcostume, ma che testimonia un guasto profondo dei rapporti istituzionali dagli effetti devastanti sulla tenuta stessa del sistema.
Molti osservatori hanno evocato quale origine del problema la crisi seguita alla fine della prima Repubblica, quando il dissolversi di un sistema politico ha di fatto lasciato un vuoto che è stato occupato da un’abnorme deriva mediatico-giudiziaria dalla quale – a sua volta – è scaturito un eccesso di potere incontrollato della magistratura inquirente che, inevitabilmente, è stato esercitato in modo improprio sugli altri protagonisti della dialettica istituzionale.
A ben vedere, tuttavia, si potrebbe risalire più indietro per scoprire l’inizio di un processo di erosione della credibilità e dell’efficienza di un servizio fondamentale, come quello dell’amministrazione della giustizia. Oggi, 28 maggio, ricorre l’anniversario di uno sconvolgente delitto degli anni di piombo: l’assassinio del giornalista del «Corriere della Sera» Walter Tobagi.
Quarant’anni or sono, il 28 maggio 1980 Tobagi fu ucciso in via Salaino a Milano da un commando terrorista di ex componenti delle Formazioni comuniste combattenti, che avevano assunto la denominazione di “Brigata 28 marzo” in ricordo dell’irruzione dei carabinieri in via Fracchia contro la colonna genovese delle Brigate Rosse.
Per il delitto Tobagi si celebrò tre anni dopo un processo che lasciò una profonda ferita nella coscienza civile del Paese, poiché si concluse con condanne lievi per il leader del commando assassino. Al termine delle udienze, attribuendo alla sua testimonianza un eccezionale contributo per le indagini degli inquirenti, il tribunale accolse la richiesta della procura milanese concedendogli di uscire dalla prigione.
In modo difforme da quanto accaduto a Roma solo un anno prima, si dava un’applicazione estensiva della legge premiale per i cosiddetti pentiti.
Quello che più conta è però che il processo fu contraddistinto da un elevato grado di strumentalità politica, che ebbe ricadute sull’esercizio stesso della giurisdizione. Walter Tobagi fu scelto come bersaglio dai terroristi in quanto esponente riformista, riconducibile al Psi di Bettino Craxi.
In tanti si domandarono quanto pesò tale fatto anche nel comportamento della magistratura, nel momento in cui alleviò le condanne per i responsabili nonostante – già durante il dibattimento – fosse emerso come in realtà la loro individuazione non dipendesse dal “pentimento” ma da pregresse indagini dei carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
In questo lontano episodio di quarant’anni fa sono contenute molte delle ragioni che vedono la giustizia italiana nell’attuale condizione di profonda sofferenza.
Si possono sintetizzare nei termini di un distacco lacerante fra gli esiti formali e il senso concreto di giustizia; del pregiudizio politico che spesso condiziona le decisioni e offusca l’analisi dei fatti processuali; della pretesa insindacabilità accompagnata, talvolta, da una volontà prevaricatrice che trascende dagli alvei istituzionali.
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