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18/11/24 ore

La liturgia del processo e la tentazione dell’informatica



di Fabio Viglione

 

La celebrazione “da remoto” delle udienze penali sulla base dei recenti decreti legge (11 e 18/2020) merita approfondita riflessione. Una riflessione che non sia solo rivolta ad attraversare una fase straordinaria ma sappia proiettarsi in un futuro normalizzato dal superamento dell’emergenza pandemica. Ed allora, guardando a queste nuove forme di interazione, un primo tema attiene alla scelta delle piattaforme attraverso le quali dovrebbero svolgersi i processi a distanza. In buona sostanza, a quale gestore di dati si consentirà di operare le connessioni tra i siti attraverso i quali le parti processuali si scambieranno le loro informazioni, condivideranno i singoli atti.

 

Dalla formulazione dei singoli capi di imputazione alle dichiarazioni dei testi, alle intercettazioni telefoniche, ad ogni documento esaminato. La scelta è caduta su un fornitore statunitense (Microsoft) che attribuisce alle autorità americane un ampio potere di acquisizione di informazioni sensibili.

 

Si tratta di un tema particolarmente delicato e rilevante tanto da aver portato il Garante dei dati personali (su opportuna sollecitazione dell’Unione Camere Penali) a rivolgere richieste di chiarimento al Ministero della Giustizia per i profili di propria competenza istituzionale. Ma senza far torto a questa delicata tematica che, come è evidente, attiene esclusivamente alla protezione dei dati personali, la criticità maggiore è certamente relativa al rischio di una pericolosa apologia del processo telematico.

 

Quanto meno con riferimento al processo penale. Già da tempo, in più occasioni, e ben prima dell’emergenza pandemica, da più parti si era ipotizzato un sempre maggiore impiego della tecnologia anche per venire incontro agli “inconvenienti della fisicità” del processo penale. Un po' come Jules Verne (Autour de la lune), aveva anticipato, ben cento anni prima, la descrizione di un allunaggio, qualcuno aveva cominciato a ipotizzare che le parti di un processo potessero affrontarsi a distanza e più comodamente davanti ai rispettivi p.c.

 

Purtroppo, questi scenari stanno assumendo una qualche forma di attualità nella situazione che stiamo vivendo. Una attualità che allo stato presenta i caratteri della provvisorietà e della straordinarietà. Le emergenze, se sono tali, (anche se la Costituzione non annovera lo “stato di emergenza” ma “lo stato di guerra”, che può essere deliberato dalle Camere, art. 78) comportano la necessità di fronteggiare situazioni eccezionali, contingenze straordinarie. Inevitabile, quindi operare dei bilanciamenti con compressione di alcuni diritti.

 

Tuttavia questi (enormi) sacrifici alla ritualità del processo, non possono che concepirsi, non senza criticità, limitati all’emergenza. Oltre che limitati a poche e specifiche attività non rinviabili. Un processo penale, così come concepito dalla nostra Costituzione prima che dal codice di procedura, non può che celebrarsi nel “contraddittorio fisico” tra le parti. Una fisicità che giova ai soggetti processuali ed alle parti per vivere la propria funzione. Una funzione che non può prescindere dall’indagine dell’animo umano che compone la parte viva della materia fluida sulla quale si è chiamati a dare risposte concrete.

 

La ricostruzione di un fatto passa attraverso la sollecitazione di contributi narrativi che non ammettono surrogati digitalizzati. Non c’è moderno computer, grande schermo o alta risoluzione che tenga.  Non è una questione di pixel. Neanche di acustica. La percezione dei dati necessita della fisicità, la dinamica evolutiva del contraddittorio muta al mutare di una percezione che solo il confronto e l’osservazione diretta dell’Aula può soddisfare. L’aula e l’oralità nel contraddittorio nella formazione della prova sono realtà inscindibili e non smaterializzabili.

 

Chi non è mai stato in un’Aula di Giustizia può attingere in ogni caso alla letteratura ed alla cinematografia per dare un senso concreto alle mie parole. Non si può abbassare la guardia nel richiamo a queste necessità perché non c’è progresso e non c’è evoluzione tecnologica in grado di sostituire la liturgia e la simmetria, anche fisica, degli spazi in cui si amministra la Giustizia. Ci sono luoghi e attività che non ammettono equipollenti! Un avvocato che “interroga” un testimone seduto davanti al suo p.c. sarà sempre un ologramma di quello che, in carne e ossa, procederà al controesame in Aula, avvolto nella toga.

 

 

È anche l’esito del contributo testimoniale non sarà lo stesso. Non è una questione scenica. È una questione sulla quale non è possibile guardare “al dito” della innovazione tecnologica perdendo di vista “la luna” che è la qualità del processo. E non c’è un processo affidabile se non consente al diritto di difesa di estrinsecarsi nella sua pienezza che non può prescindere dalla capacità sensoriale.

 

In una parola: dalla fisicità. Ed è giunto il momento di esaminare le questioni di questo tipo che non possono far passare chi le pone come oscurantista, refrattario al progresso, all’innovazione, alla tecnologia. Non possono relegarsi a questioni poste dai soliti vessiliferi delle garanzie che attingono a residui fossili di un armamentario retorico ormai smaterializzato. Qui non si tratta di cavillare su formalismi e inesattezze marginali. Alla tecnologia molto spazio può riservarsi nella gestione delle risorse per implementare la capacità di semplificare tanti dispendiosi adempimenti.  Tanto si può e si deve fare ancora per consentire all’informatica di assistere al meglio l’amministrazione del servizio Giustizia.  Basti pensare alle notifiche, alle attività di deposito di atti, istanze, di accesso diretto ai fascicoli

 

È in quella direzione che è possibile davvero ottenere maggiore efficienza e velocizzazione per rendere più moderna la fruizione del servizio. È quella la frontiera dell’informatica che non teme affatto la nostalgia di dispendiosi modelli tradizionali. Ma l’Aula in cui si svolge il contraddittorio tra chi accusa e chi ha diritto di difendersi non può smaterializzarsi e leofilizzarsi in una virtualità irriducibile con la propria natura e la propria funzione. È l’intera liturgia di quel momento di alta intensità umana e giuridica che va salvaguardata.

 

La ricerca della verità non può passare dalla sintonizzazione di piattaforme virtuali che finirebbero per produrre un simulacro di processo. I principi del giusto processo sono frutto di secoli di evoluzione che uno Stato di Diritto deve custodire con cura perché faticosa è stata la loro conquista. 

 

In questo senso, la smaterializzazione di quei necessari presidi alla qualità del metodo finalizzato al raggiungimento dell’accertamento si tradurrebbe in un vero e proprio virus per l’intero assettoEd è in questa fase di provvisorietà, di sperimentazione e di straordinarietà che si devono tenere a mente, ben chiari, questi peculiari limiti per preservare la qualità della giurisdizione.

 

Ed ecco che, proprio in questo tempo, le parole di Giuseppe Prezzolini, che sottolineava come in Italia non ci fosse “nulla di più definitivo del provvisorio”, impongono la necessità di non rimandare le riflessioni sul tema della smaterializzazione del processo, relegando la questione ad una emergenza affrontata per mezzo dei nuovi portentosi ritrovati dell’informatica.       

 

 


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