La dimostrazione dell’assoluta inaffidabilità come governanti dei 5stelle proviene dal “retroscena” che loro stessi hanno diffuso sui media circa il ritiro di Acelor Mittal dall’ILVA. Il gruppo franco-indiano, dicono, voleva già ritirarsi dall’investimento italiano, perché accortosi della sua onerosità e ha usato la questione dello scudo penale come un pretesto. Se la ricostruzione fosse vera vorrebbe dire che proprio dentro il M5S vi era chi ha fatto da sponda al “machiavellico” proposito, in quanto l’emendamento che ha modificato le clausole contrattuali è stato imposto dai pentastellati agli altri partiti del governo che pure l’hanno approvato.
La sequenza dei fatti lascia pochi margini di dubbio: a settembre 2018 la Acelor Mittal aderisce alla proposta italiana di farsi carico dell’ILVA e del suo risanamento. Con quel contratto si impegna sino al 2024 nell’acquisto dello stabilimento di Taranto e nell’opera di risanamento necessaria per ovviare alle criticità di tipo ambientale (con un investimento di oltre 4 miliardi di euro e il mantenimento più di 10mila posti di lavoro e ovviamente l’indotto relativo…). Al punto 27.5 del contratto è scritto esplicitamente che, qualora venisse meno lo scudo penale previsto per il management nella fase commissariale, l’affittuario Acelor «ha il diritto di recedere dal contratto attraverso una comunicazione scritta indirizzata alle Concedenti».
Ciononostante, in contrasto con l’atteggiamento assunto dal capo politico del M5S Luigi Di Maio che, in qualità di ministro dello Sviluppo economico, ha contribuito alla conferma di quel contratto, in Parlamento la deputata 5Stelle Barbara Lezzi ha presentato l’emendamento al decreto imprese che ha cancellato lo scudo penale. Poiché tale provvedimento è divenuto pregiudiziale per la sopravvivenza dell’alleanza politica di sostegno al governo, alla fine il 2 novembre il decreto approvato lo faceva proprio senza che né i partiti, né il Quirinale in fase di promulgazione avanzasse obiezioni.
Una volta approvata in via definitiva la legge, la società franco-indiana ha subito inviato la lettera di rescissione del contratto e la situazione dello stabilimento siderurgico, con il suo indotto, è precipitata.
Quindicimila operai a rischio di disoccupazione e la possibile fuoriuscita dell’Italia dalla siderurgia, che non può essere scongiurata dall’illusione di una nazionalizzazione dell’ILVA, come in queste ore si va prefigurando nel tentativo di occultare le responsabilità di una politica dissennata, sono gli esiti ampiamente prevedibili (e previsti da molti) della situazione determinatasi.
È grave che il ripensamento di Di Maio sia intervenuto senza alcuna considerazione per le sue ricadute sull’economia del Paese, ma soltanto con il pensiero rivolto alle diatribe interne al Movimento 5 Stelle; è grave che i politici regionali – a cominciare dalla giunta presieduta da Emiliano – abbiano preferito cavalcare il risentimento piuttosto che prodursi in un serio tentativo di risoluzione dei problemi; è grave che i partiti nel loro insieme si siano dimostrati complessivamente impreparati.
Ma soprattutto è grave che, in assenza di un governo politico, l’intera questione dell’ILVA sia stata abbandonata alla deriva delle iniziative giudiziarie, senza che i vari soggetti coinvolti (dai magistrati ai sindacati e alla cittadinanza) incanalassero le loro azioni in una prospettiva generale capace di tener conto dei suoi tanti risvolti.
Per questo può ben dirsi che la vicenda ILVA è davvero emblematica dello stato in cui versa il Paese e rischia di diventare un altro esempio drammatico di come vada sfibrandosi il suo tessuto connettivo sociale ed economico.
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