Per come si stanno mettendo le cose alla vigilia delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo, il dibattito pubblico sul futuro dell’Europa rischia ancora una volta di rivelarsi un’occasione mancata. Il confronto sinora va concentrandosi sulle due opzioni di chi rivendica quote di sovranità, allo scopo di tutelare il più possibile gli interessi interni, e di chi invece è preoccupato in primo luogo di preservare l’unione tra gli Stati europei, sin qui eretta attorno al duopolio franco-tedesco.
In definitiva si tratta di due opzioni di natura “conservatrice” che, a nostro avviso, da un lato mancano di offrire visioni diverse, che tengano conto dei mutamenti intervenuti nell’ultimo quarto di secolo, e dall’altro trascurano il fatto che l’Europa, in quanto tale e al pari delle nazioni che la compongono, non svolge alcun ruolo da protagonista nello scenario strategico che si va delineando.
Quando si avviò il processo dell’unità europea, dopo la seconda guerra mondiale, le linee guida che lo ispiravano erano certamente il superamento delle divisioni che portarono al conflitto, ma anche in prospettiva l’idea che si potesse dar vita a un’area geopolitica in grado di collocarsi sullo stesso piano delle due superpotenze di USA e URSS.
Nel corso del tempo, queste linee hanno subito delle evoluzioni e degli adattamenti, per cui vi era chi – come Robert Conquest – auspicava un fronte comune dell’Occidente democratico fra la sola Europa occidentale e gli Stati Uniti e chi, invece, dopo la caduta del muro, ha puntato alla creazione di un’Europa allargata che si incuneasse come terzo soggetto economico-politico fra Asia e America.
A tre lustri dall’inizio del XXI secolo, si dovrebbe prendere atto che molte delle premesse sulle quali si disegnavano le possibili traiettorie per definire il ruolo dell’Europa sono del tutto mutate. La mancata consapevolezza di ciò comporta non solo di accelerare il declino europeo, ma di dare risposte inidonee al superamento di una crisi da tempo conclamata ed evidenziata da fattori oramai ben radicati: dall’invecchiamento delle popolazioni al ridotto tasso di crescita e sviluppo, sino all’abdicazione di valori e ideali indispensabili a nutrire e mantenere viva la democrazia.
La situazione attuale è risultato tanto delle scelte operate dagli Stati Uniti durante i primi quindici anni del nuovo secolo, quanto dei velleitarismi (come pure delle titubanze) dei principali Stati dell’UE. Fra il 2000 e il 2015 si sono determinate quasi le stesse condizioni vissute un secolo prima, al termine del primo conflitto mondiale.
Come allora un ruolo di non poco conto l’ha rivestito il condizionamento ideologico, staccato dalla presa d’atto della realtà. È augurabile che le conseguenze nefaste della pace di Versailles del 1919 innestate dalla politica idealista di Wilson siano oggi scongiurate, ma di certo gran parte delle criticità che viviamo è figlia delle politiche adottate dal deep Stateoperante nelle amministrazioni di Washington (di entrambi i partiti).
Dalla pretesa di “esportare la democrazia” con gli interventi militari di Bush all’illusione mondialista di Obama, aggravata dall’anacronistica conflittualità con la Russia quasi non fosse cambiato il contesto del bipolarismo passato, da parte americana non si è stati capaci di delineare una mappa alternativa a quella del post-Yalta. Si è finito così per favorire frammentazioni e accrescere il grado di instabilità nel mondo (Sudamerica, Libia…), mentre alla Cina è stato possibile salire al rango di seconda potenza.
Da parte loro, Francesi e Tedeschi non hanno dato luogo alla costruzione dei tanto spesso evocati Stati uniti d’Europa, ma piuttosto a un ambiguo compromesso i cui obiettivi reali rimangono in un’area di reticenza e non detto. Da un lato, i vantaggi indubbi della Germania derivanti dall’adozione della moneta unica sono in via di esaurimento, senza che Berlino riesca davvero ad assumere un ruolo di leadership della compagine europea, sia per inadeguatezze politico-militari e sia per il peso della storia passata.
Sull’altro versante, la Francia continua ad avere rispetto all’unità europea un approccio che, fondamentalmente, resta quello napoleonico: un allargamento della sua area di influenza. Solo che nel futuro l’area del Vecchio Continente è spinta sempre più ai margini dell’asse mondiale e la velleità francese pecca così di infantilismo politico, nel senso che si riduce ad essere la coazione a ripetere un gioco ormai logoro in un panorama che, dopo il 2016 e l’elezione di Trump, ha tutt’altri orizzonti.
Una situazione confusa, dunque, nella quale si stenta a trovare leadership con capacità di visione, e contraddistinta dall’emersione di una drammatica consapevolezza, che deve ancora trovare il modo di manifestarsi ed essere elaborata in modo non istintivo ma razionale.
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