Agenzia Radicale e Quaderni Radicali vogliono dedicare qualche pagina a Stefano Rodotà non per assolvere a un dovere di cronaca che ovviamente non rientra nei compiti e nei doveri di strumenti militanti come questi nostri, ma perché l’illustre giurista aveva scritto sul “Mondo” e aveva aderito in gioventù al Partito radicale al tempo dei fondatori, uscendone al momento della crisi del 1962, quando i fondatori persero la fiducia nel movimento politico cui avevano dato vita e l’eredità della “sinistra liberale” - fuoriuscita dal Partito liberale nel 1955 e che del nuovo partito era stata il nucleo centrale – fu raccolta dai giovani che con Marco Pannella avevano animato la “sinistra radicale”.
Spadaccia, Mellini, Bandinelli, Stanzani, Teodori, Aloisio e Giuliano Rendi… e c’era anche l’estensore di queste note… alcuni (Marco in primo luogo) avevano fatto l’esperienza dell’U.G.I., l’Unione Goliardica Italiana, con la quale si erano sperimentati i primi scontri con le formazioni universitarie filiazioni dei partiti, in nome dell’autonomia delle presenze studentesche nei luoghi dell’istruzione superiore. Certo, gestire l’ “eredità della sinistra liberale” non era facile e comportava la necessità di costruire un rapporto dialettico con le altre forze della sinistra - alla quale ci rendevamo conto di dover trovare una strada unitaria, non però nel senso di tracciare sin dall’inizio un percorso comune, ma dando per prima cosa l’avvio a un confronto di idee.
E prima ancora avvertivamo, più o meno confusamente, che il liberalismo era qualcosa di più e se volete di diverso da quello tradizionale, al di là delle stesse convinzioni più avanzate di Piero Gobetti, dei fratelli Rosselli, di Giovanni Amendola, di Mario Pannunzio e del gruppo del “Mondo”, dello stesso Ernesto Rossi… o dei temi della famosa polemica tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi su liberalismo e liberismo… Capivamo che, specialmente in Italia, il liberalismo aveva una portata rivoluzionaria…
Pannella elaborava evidentemente e a tratti tirava fuori considerazioni che rivelavano un pensiero nuovo, intuizioni disorganiche che con il tempo venivano organizzandosi e approfondendosi, ma che in ogni caso segnavano una diversità di fondo con i partiti tradizionali, con i quali e con la loro “unità antifascista” così come si era venuta istituzionalizzando dal 1945 in poi si avvertiva una distanza sulla quale era necessario intendersi: al regime fascista era succeduto un regime democristiano, una nuova forma corporativa, una sorta di consociazione che consentiva ampi margini di scontro politico, ma che si fondava su una sorta di legittimità circoscritta e riconosciuta soltanto ai partiti che del Comitato di Liberazione Nazionale avevano fatto parte e che veniva difesa con le leggi elettorali, con il finanziamento pubblico dei partiti, con le leggi sulla stampa, con il monopolio televisivo della RAI…
Ecco il nuovo “regime”, come noi lo sentivamo sulla nostra pelle, dominato da logiche corporative, che anche dei partiti facevano corporazioni e non libere associazioni di cittadini per fare politica…e con lo “ius excludendi alios”. L’ ”arco costituzionale”, l’esarchia…
Stefano Rodotà aveva fatto una scelta diversa, ovviamente legittima, realistica, capace di presenza nei conflitti come apparivano e venivano percepiti, la scelta dell’operare all’interno del “quadro” venuto in essere dopo la fine del fascismo, caratterizzato dalla convergenza tra tutte le forze politiche nella premessa antifascista, consacrata nella Costituente e che al PCI era indispensabile nella logica della “via italiana al socialismo”.
Era il quadro nazionale. Dentro c’era tutto: anche l’idea che lo status quo poteva essere una schifezza , che meritava solo di essere distrutta, armi alla mano e che se queste venivano usate era giusto, era giusta la dovuta repressione. I “diversi” eravamo noi. Ce lo rivelava soprattutto il confinamento ai margini di ogni iniziativa che urtasse contro il “sistema” che vedeva al centro la DC. La DC aveva voluto nella Costituzione il riferimento ai Patti lateranensi, una soluzione della “questione romana” frutto del compromesso insito nella posizione assunta – a quel tempo - dalla destra cattolica nei confronti del fascismo: ”non collaborazione e non opposizione”: la via aperta al compromesso.
Era la posizione che don Luigi Sturzo aveva avversato (finendo poi all’esilio) e che aveva assicurato a Mussolini quella sorta di quiescenza di gran parte della popolazione (e del clero): era quanto gli bastava. Ed era la posizione che consolidava sia il principio dell’unità politica dei cattolici, già formulato da papa Leone XIII, sia il percorso “post-temporalistico” dal quale la Chiesa italiana si sta disintossicando soltanto in questi ultimi anni, e soprattutto con papa Francesco. Il Concordato rappresentava il contrario del togliattiano dialogo con i cattolici (fondato sulla scelta di quelli…buoni e necessari per fare le riforme sociali).
Nella famosa lettera a “Paese Sera” del marzo 1959, Pannella, muovendo dalla constatazione che nel campo laico italiano si affacciava la proposta di un’alternativa ai governi centrati sulla DC, fondata sulla realizzazione di un’unità di tutta la sinistra, in primo luogo impostava il problema di un’alleanza tra la sinistra democratica e quella comunista al livello di un riferimento europeo (nel quale la consistenza del campo democratico era ben evidente) e, proprio in apertura della lettera, sottolineava le difficoltà e i rischi di questa alleanza, al fine di superarli (non dimenticare le lotte tra anarchici e comunisti al tempo della guerra di Spagna o le vicende dell’est europeo nel secondo dopoguerra, dalla Cecoslovacchia all’Ungheria…).
In quella (lunghissima) lettera Pannella sottolineava poi che nel secondo dopoguerra “gran parte della cultura laica sembrava divisa fra la tentazione accademica e la frana su posizioni di sostegno al PCI; il socialismo sembrava destinato a una funzione subordinata; lo stesso sindacalismo era mobilitato nella politica di guerra fredda; il Partito d’azione era scomparso; ancora convogliate nel frontismo le giovani generazioni intellettuali…”; e concludendo Pannella in sostanza chiedeva l’avvio di un confronto con il PCI.
Togliatti, che aveva capito la pericolosità del discorso di Marco, rispose qualche giorno dopo sempre su Paese Sera con una lettera altrettanto lunga, nella quale, senza contestare a nessuno la facoltà di presentarsi come il centro di future nuove costellazioni, confermava la linea del suo partito (la sua linea), difendendo l’operato dei partiti comunisti dalla Russia rivoluzionaria, alla Spagna all’est europeo, rilevando che in Spagna lo scontro fra anarchici e comunisti aveva forse registrato più morti tra questi ultimi e che in Russia nel 1917 e nell’Europa Orientale dopo la seconda guerra mondiale, anche se erano stati commessi degli errori, le colpe erano degli alleati di governo che non erano stati ai patti e che, quanto all’art. 7 della Costituzione (cioè al richiamo al Concordato del 1929), fra i tanti che al tempo protestavano non pochi erano stati quelli che per anni e anni si erano adoperati per creare le condizioni politiche del monopolio politico democristiano… E confermava il dialogo con i cattolici nei termini di cui si è detto.
Ecco: due percorsi alternativi. Il ben consolidato “arco costituzionale” e quello radicale che invece evolveva giorno dopo giorno, in particolare nel “metodo”, senza negare lo sforzo per una presenza parlamentare, ma armandosi della nonviolenza, dei digiuni, dei sit in, della disobbedienza civile… per una politica dei diritti civili… e quanto al fascismo “regime”, per noi esso era stato quello finito il 25 luglio del 1943; la Repubblica di Salò, costituita da Hitler con un Mussolini liberato al Gran Sasso dal tenente colonnello delle SS Otto Skorzeny, aveva rappresentato una reviviscenza postuma, terribile, ma gestita da un fascismo ormai morto nella coscienza degli italiani, agli ordini del Fuehrer.
Non si può infine dimenticare che il percorso radicale fa anche i conti anche con la rivoluzione. C’è uno scritto di Marco (uno dei pochissimi) che nel 1973 non vuole scrivere la prefazione al libro di Andrea Valcarenghi “Underground a pugno chiuso”. E dice: “Non so cosa scrivere e mi chiedo perché Andrea la abbia chiesta a me [la prefazione] e non a Umberto Eco, lettore-prefatore della nostra epoca scritta,; ma no, piuttosto a Franco Fortini, Luigi Pintor, Adriano Sofri, che avrebbero saputo cogliere l’occasione per dirci un po' meglio di quanto non sappiamo quel che siete, quel che siamo e per rispondere nello stesso tempo alle loro diverse e così significative esigenze di moralità politica. Io queste cose non le so fare….. Tu sei un rivoluzionario. Io amo invece gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo le speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della destra storica….tu non leggi i miei ‘scritti’, le migliaia di volantini ciclostilati, di comunicati stampa, di foglietti del partito radicale, che sono le sole cose che io abbia mai prodotto, in genere scrivendole in mezz’ora, per urgenze militanti…”.
Oggi viviamo in un altro mondo. Ma in termini diversi le esperienze di quegli anni hanno molto da suggerire anche nel presente, soprattutto in termini di principi e orientamenti.
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