Perché un progetto politico come quello del Partito Democratico, sulla carta collettore delle energie volte a modernizzare l’Italia e denso di prospettive innovative, ha finito per dilaniarsi al suo interno e attardarsi in sterili diatribe, che appaiono sempre più lontane dalla comprensione dei problemi della società italiana, oggi preda dello scontento? Per provare a spiegarne le ragioni, è necessario ripercorrere il tragitto che ha condotto alla sua nascita.
Dopo il 1989, con il venir meno dell’ordine internazionale scaturito dal post Yalta, anche gli equilibri interni dell’Italia sono stati terremotati. Il bipartitismo imperfetto basato sulle coalizioni di governo attorno alla DC e sul PCI, già posto in crisi durante il ventennio precedente, si è definitivamente sfaldato quando il nostro Paese ha perduto la sua rilevanza strategica.
Con quello che potremmo chiamare il “calo di interesse” da parte della superpotenza di riferimento, gli Stati Uniti, sono cadute anche le ragioni sulle quali aveva potuto contare il sistema politico italiano. Lo smantellamento delle forze politiche di maggioranza dopo Tangentopoli ci ha così introdotti in una lunga transizione che dura di fatto da oltre vent’anni, senza che l’alternanza al governo determinata dall’adozione del maggioritario e dal bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra abbia realmente prefigurato un modello sostitutivo di quello della prima repubblica.
I motivi vanno ricercati da un lato proprio nella determinazione, manifestatasi a livello internazionale, di ridimensionare drasticamente il ruolo dell’Italia, favorendone di fatto il declassamento nelle nazioni per così dire di terza fila, private di ogni ruolo significativo; dall’altro lato, nella preoccupazione delle oligarchie interne di preservare per quanto possibile i propri interessi e vantaggi, pregiudicando ogni tentativo di cambiare la situazione data.
Durante gli anni della cosiddetta democrazia consociativa, le oligarchie si sono assicurate il controllo della vita collettiva confidando per l’appunto sulla insostituibilità del consociativismo quale sistema di governo del Paese atto ad assicurare la pace sociale attraverso il debito pubblico.
Ma se questo ha consentito di estendere il welfare, evitando per decenni di porsi la fatidica domanda “chi paga”, ha pure costruito una ragnatela di condizionamenti che si è nutrita stritolando le autonomie. Una lunga sequenza di scelte e decisioni che ha contribuito a costruire – come rilevato dal direttore di «QR» Giuseppe Rippa già svariati anni fa – quella “società delle conseguenze” che oggi, di fronte alla crisi dello Stato assistenziale e al logoramento delle istituzioni, si dimostra incapace di trovare gli anticorpi in grado di contrastare gli effetti della globalizzazione in atto e reagisce di conseguenza con il ribellismo e il risentimento.
È in questo contesto che le forze raccolte attorno al centrosinistra – post-comunisti e democristiani di sinistra – hanno dato corpo al Partito Democratico. Ma esso, come scrivevamo nel n. 109 di «Quaderni Radicali» dell’estate di quattro anni fa, ha mancato di “dare un corpo politico alla sfida di libertà che il momento storico proponeva, cosicché il ‘vuoto’ laico e liberal-democratico è rimasto tale, chiuso com’era fra i conservatorismi e le inerzie”.
Infatti, contrariamente a quanto sostenuto da certa pubblicistica politica (vedi Paolo Borgognone, L’immagine sinistra della globalizzazione, Zambon; 2016), la nascita del PD non coincide affatto con la metamorfosi delle sue componenti in un “partito radicale” di massa, così da assorbire temi ed approccio liberali per governare le molteplici questioni da tempo irrisolte...
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