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17/11/24 ore

An American Carnage”, ovvero i Divided States of America di “The Donald”


  • Roberto Granese

Molti hanno detto che non si era mai sentito un discorso di insediamento così simile ad un comizio da campagna elettorale…e quello che più stupisce della “presentazione al mondo” del 45° presidente USA sono proprio i toni cupi e lo scarso o inesistente tentativo di “superare la sua base elettorale” e rappresentarsi come il presidente di tutti gli Americani.

 

Al di la dei contenuti specifici, le posizioni altalenanti e le polemiche interminabili ed interminate con quarto e quinto potere - l’ultima “dichiarazione di guerra ai media” poche decine di ore fa -, l’America che Trump delinea nel suo speech inaugurale è degna di una fiction post-apocalittica: Crimine, povertà, disperazione ed uno stato di abbandono e decadenza sociale, economica ed istituzionale mai visto prima sono gli ingredienti del”massacro americano” in cui Il “nostro” si trova ad operare per rilanciare una nuova vetustissima e provinciale visione dell’ ”American Dream”.

 

Fino alla settimana scorsa “American Carnage” ci riportava alla mente il bel libro di J. A. Greene sul massacro di Wounded Knee, o - per gli appassionati di Death Metal - il tour dei “Megadeth” con gli “Slayer” del 2010; da oggi il termine è associato al punto di vista di Trump sull’America di Obama una specie di deserto post industriale in mano a gangs di criminali e soffocato da disoccupazione e povertà.

 

Se è vero che ad oggi è decisamente troppo presto per fare analisi su un futuro tutto da scrivere, è vero anche che la “dichiarazione di intenti” della nuova presidenza viaggia tra il fanatico, l’improbabile, il fantastico e l’imbarazzante.

 

I capisaldi inspiegati - perché in gran parte inspiegabili - del “programma” trumpiano si intravvedono tra manciate di retorica patriottica e populista infarcita di elementi di nazionalismo in salsa tipicamente americana e di costruzione del “nemico straniero” quasi in stile anni ’30, il quadro che ne viene fuori disegna un paese che fa forza su protezionismo, isolazionismo, investimenti in infrastrutture, rientro più o meno forzato della produzione industriale nelle aeree del mid-west, investimenti in fonti di energia inquinanti, taglio del welfare e delle spese di cooperazione internazionale ed una serie di alti ingredienti per fare “l’America nuovamente grande” come in non si sa bene quale età dell’oro.

 

La squadra di governo di banchieri, generali e petrolieri che dovrebbero riportare il “potere al popolo” dovrebbe quindi riuscire, in base alle proposizioni del neo-presidente, a tagliare fuori, a suon di dazi doganali, l’America di Trump dalla globalizzazione e dal commercio internazionale con buona pace dei cinesi e del resto del mondo, e, probabilmente degli stessi americani che si troverebbero a spendere molto di più per acquistare gli stessi prodotti di cui fanno uso oggi.

 

A questo aggiungiamo che gli investimenti, nonostante le dichiarazioni vagamente contrarie, dovrebbero, almeno in parte, provenire da un ulteriore aumento di spesa e quindi dell’enorme debito pubblico - anche questo in gran parte detenuto da quegli stessi paesi che dovrebbero essere le “vittime” del protezionismo USA .

 

La restituzione dei posti di lavoro agli operai del mid-west, considerato la combinazione di informatizzazione e robotizzazione dell’industria 4.0, rimane in gran parte una complicata utopia resa ancor più tale dalla dichiarata ostilità verso lo stato sociale ed ogni forma di redistribuzione della ricchezza; a questo aggiungiamo che  l’investimento in fonti di energia dichiaratamente inquinanti e non rinnovabili è anch’essa un ipoteca sul futuro del pianeta come, del resto, le abbozzate posizioni in politica estera. Politica estera che vedrebbe il mondo oltre i sacri difesi confini della nuova America quindi delinearsi in una rinnovata e forte amicizia con il Regno Unito, una chiara posizione anti-europeista, una nuova amicizia con la Russia di Putin, un esacerbato conflitto non dichiarato con Cina e Messico ed una nuova diffidenza verso l’Iran.

 

Il decisionismo del nuovo presidente si affaccia al mondo con un’affollata agenda dei primi cento giorni in cui si dovrebbero gettare le basi dei quattro anni di presidenza, e, ad oggi abbiamo già visto le prime firme tese alla demolizione dell’Obamacare…le prospettive non sono le migliori, ma abbiamo ancora speranza che il confronto/scontro tra gli apparati istituzionali della più solida democrazia del mondo e le bizzarre prosizioni di questo miliardario settantenne, “homo novus” dell’antipolitica americana (o di chi per/tramite lui) siano produttori di una sintesi un po’ più vicina all’America di cui il mondo ha ancora molto bisogno.

 

 


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