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16/11/24 ore

La crisi dell'Europa e della globalizzazione e le risposte populiste. Qualche considerazione sull'articolo di Antonio Polito



di Gianfranco Spadaccia

 

Ha ragione Antonio Polito. Le cause che hanno determinato il diffondersi dell'ondata populista prima in Europa e poi in America sono reali e non hanno nulla di irrazionale. Sono il portato di molte e convergenti crisi generate da una globalizzazione che mai nessuno si è proposto di governare e che ha in successivi momenti colpito e coinvolto l'intero mondo occidentale. C'è un impoverimento complessivo che investe non solo i ceti più deboli ma anche le classi medie e, per la prima volta, nel capitalismo occidentale il futuro per la maggioranza della popolazione promette un benessere assai inferiore a quello di cui hanno goduto le generazioni passate.

 

Tutto questo è effetto della globalizzazione che ha ampliato i confini geografici del capitalismo industriale e finanziario in Asia, in America Latina, in Africa e che ha creato centinaia di milioni di posti di lavoro. Era impensabile che non avesse ripercussioni sui paesi che fino ad una generazione fa' avevano avuto il monopolio dello sviluppo e del benessere. Ad esso si aggiungono le conseguenze di una rivoluzione tecnologica che ci affascina nei suoi aspetti più superficiali che sono quelli della comunicazione istantanea ma che incide profondamente sui processi di produzione riducendo con i costi anche i posti di lavoro e i livelli di occupazione. 

 

Il populismo si rivolta contro un establishment e contro classi dirigenti politiche ed economiche che finora hanno dimostrato di non avere alcun progetto per uscire da queste crisi. In questo non c'è nulla di irrazionale. E tuttavia c'è un aspetto che forse non è irrazionale (Polito cita Hegel “ciò che è reale è razionale”) ma è certo paradossale : i rimedi che il populismo propone rischiano di essere peggiori del male che pretendono di combattere. Prendiamo la Brexit. I populisti hanno vinto ma il risultato del referendum sembra rendere più difficile la ripresa economica sia della Gran Bretagna sia dell'intera Unione Europea,  allontanando e non avvicinando la possibilità  di uscita dalla crisi e accentuandone la portata. E questo rischia di ripetersi e moltiplicarsi nell'intero occidente e in tutto il mondo globalizzato.

 

Qualcuno ha ricordato la crisi della prima globalizzazione nei primi decenni del novecento, che pagammo con la lunga recessione degli anni 20 e 30, con il fascismo e il nazismo e due guerre mondiali. Forse vale la pena di ricordare che la ricetta che anche allora fu proposta e perseguita con la chiusura delle frontiere e con il protezionismo economico aggravò senza alleviare in nulla le crisi economiche nazionali e quella dell'economia mondiale. Ora rischiamo di ripetere gli stessi errori di allora.  Hanno cominciato Argentina, Brasile e Venezuela a ricorrere a ricette protezionistiche.

 

L'effetto è stato nei loro paesi la cessazione del loro sviluppo economico che li aveva fatti uscire dalla condizione di paesi sottosviluppati per entrare in quella di paesi emergenti. Poi è toccato all'Europa di mettere in crisi il trattato per il mercato comune atlantico. Ora è Trump che chiede la messa in crisi del trattato liberoscambista del Pacifico e rilancia con forza il tradizionale isolazionismo americano. E se con la “terza guerra mondiale a pezzi”, già cominciata, di cui ha parlato Papa Francesco, pensavamo di poterci volgere dall'altra parte e fingere di ignorarla nonostante fosse esplosa alle nostre porte, ci siamo presto dovuti accorgere che per effetto di due fenomeni distinti ma convergenti (le migrazioni dei profughi e il terrorismo dei fondamentalisti) questo non era possibile: i suoi effetti ci hanno presto raggiungo e coinvolto.

 

Ha ragione dunque Polito: “Bisogna prendere sul serio i populisti” ma per farlo occorrerebbe avere classi dirigenti capaci di proporre una alternativa credibile insieme alle cause della crisi e alle risposte populiste che possono avere soltanto l'effetto di aggravarla. La risposta più facile, nel prenderli “sul serio”, è infatti quella di inseguirli o addirittura di scavalcarli nella loro politica e nelle loro proposte. È quanto ci vediamo proporre da più parti per esempio per quanto riguarda l'Unione Europea. Questa Europa non è quella del Manifesto di Ventotene, è un'Europa burocratica, inadeguata, lontana da quel progetto federalista, costretta a fare i conti, complicati e difficili, con le trattative spesso paralizzanti degli Stati nazionali che la compongono? E allora che aspettiamo? Liberiamocene. Imitiamo la Gran Bretagna. Usciamone.

 

Per di più con l'avallo del superiore federalismo europeo proposto dal Manifesto di Ventotene e quindi nel nome di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi. Come se dalla Brexit e da tanti suoi seguiti e imitazioni (austriaca, francese, olandese, italiana per tacere di Ungheria, Polonia, Slovacchia) potesse davvero derivare il federalismo europeo o, in alternativa, un trattato di più accessibile e limitata confederazione europea. L'unica conseguenza sarebbe invece un puro e semplice ritorno agli stati nazionali, alle loro illusorie sovranità, alle loro deboli democrazie sempre più precarie e sempre più lontane dal modello dello stato di diritto liberaldemocratico, alla loro palese incapacità/impossibilità di affrontare i problemi globali del nostro tempo che continuerebbero a incombere giganteschi e a produrre crisi che per la loro dimensione non sarebbero in grado di affrontare ma dovrebbero solo subire.

 

Un'altra “risposta facile” che non è solo monopolio dei populisti ma è condivisa anche da molti governanti europei è quella che invoca l'abbandono della “politica di austerità” di cui è ritenuta colpevole e responsabile la Germania della Signora Merkel. Questa richiesta non è solo monopolio dei populisti ma è condivisa da larghi settori delle classi dirigenti soprattutto dei paesi del Sud d'Europa. Ma davvero è pensabile una politica di sviluppo fondata solo sull'aumento del debito pubblico che è assai alto in tutta Europa ma ha raggiunto limiti insostenibili in Grecia e in Italia? E chi propone l'uscita dall'euro si è chiesto che sarebbe dell'economia italiana con un ritorno alla lira, alle sue continue svalutazioni, al continuo rischio di default? Naturalmente c'è chi mette nel conto dei suoi programmi tutto questo, anche il default, come se un ritorno alla lira ci mettesse al riparo da una globalizzazione che continuerebbe a inseguirci e condizionarci con la sua finanziarizzazione dell'economia, con la gestione del risparmio da parte dei grandi fondi internazionali. Evidentemente l'esempio dell'Argentina non è servito a nulla.

 

Ritengo invece una risposta non facile ma impossibile quella di Angelo Panebianco di porre mano ai trattati di Roma per ridisegnare in termini confederali l'avvenire dell'Unione Europea. Purtroppo si è tentato in più occasioni e quei tentativi sono stati respinti o impediti. E la parola confederazione non ha nessun fascino sui populisti e non da alcuna rassicurazione alle classi dirigenti europee.

 

Purtroppo per un radicale e un federalista, quale io sono, non esistono risposte facili a portata di mano e neppure risposte giuridiche alla nostra portata. Le risposte sono tutte difficili e possono essere solo politiche. Tuttavia sarebbero possibili e perfino vincenti se avessimo classi dirigenti e di governo all'altezza della difficoltà del compito che dovrebbero affrontare nella consapevolezza che è un compito comune.

 

 


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