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18/11/24 ore

Il naufragio della Scuola


  • Luigi O. Rintallo

Sin dal suo esordio come presidente del Consiglio, Matteo Renzi ha indicato nella scuola un punto centrale del suo programma di governo. Cambiarla, realizzare finalmente una “buona scuola” è stata più volte presentata dal premier come una priorità indispensabile per tornare a scommettere sul futuro dell’Italia. Dopo una vigilia di annunci e di propositi, in cui si proclamava la necessità di dare nuovo valore al merito – di studenti e insegnanti insieme – e la volontà di proiettare il nostro sistema scolastico nel presente, strappandolo alla ristretta cerchia di addetti ai lavori (sindacalisti e burocrati) per farlo diventare tema di confronto per tutti, il governo nel luglio 2015 è infine riuscito a far approvare dalle Camere il suo disegno di legge.

 

Il percorso relativamente spedito del provvedimento trova spiegazione non perché non ci fossero contestazioni, ma nel fatto che la protesta, culminata nello sciopero del 5 maggio 2015, ha finito per essere egemonizzata da un sindacalismo obiettivamente conservatore dello status quo. La sua visione ideologizzante, abbarbicata a cliché totalmente staccati dalla realtà dove merito e responsabilità sono respinti in favore di un egualitarismo insano e nocivo, ha finito così per ridurre l’incisività di un’opposizione che aveva invece più di una ragione.

 

In tal modo, anche sulla legge 107 detta della “buona scuola” si è proiettato l’effetto che contraddistingue un po’ tutto il percorso politico di Renzi: avere una strada spianata, sostanzialmente perché senza vere alternative. Contro chi si crogiolava nelle lagnanze, il governo ha vestito così i panni di chi “fa le cose”. Ma le cose non basta farle, occorre farle bene mentre nei 212 commi si trovano ampie porzioni di testo che ripetono i soliti schemi del “riformismo scolastico” di matrice genericamente progressista.

 

Dall’ “apertura al territorio” all’ “offerta formativa”, passando per la solita “autonomia” di cui non si definiscono mai i contorni rimanendo per ora criptate le risorse economiche ad essa dedicate, è tutto un profluvio di parole dove si rischia di perdere di vista la sostanza di un provvedimento con almeno tre atti dalle ricadute molto concrete. Eccoli: a) i dirigenti scolastici potranno scegliere parte dei docenti da un Albo, senza più sottostare alle graduatorie concorsuali; b) un piano di assunzione straordinario per i docenti inseriti nelle graduatorie dei supplenti da realizzare nel corso di più anni; c) una vasta e corposa delega al governo per intervenire praticamente su ogni aspetto della vita scolastica (dal riordino degli indirizzi di studio agli organi collegiali o ai criteri per le assunzioni e i futuri contratti), senza che se ne conoscano tuttavia i principi ispiratori.

 

Insomma, il documento approvato rientrerebbe in quella produzione legislativa propedeutica più al sostegno dell’esigenza di “apparire” innovatori, che non ad affrontare da subito i principali problemi che rendono la nostra scuola ben poco “buona”. Manca il segno di una reale svolta, che per essere tale avrebbe dovuto modificare la natura mistificante della scuola italiana. Quest’ultima, infatti, si distingue per essere il luogo privilegiato della dissimulazione, ma la nuova legge sembra ignorarlo e anzi continua ad assecondare il permanere di una serie di finzioni che minano le basi stesse del suo funzionamento. A cominciare dai titoli di studio che sono dispensati ai nostri giovani, al termine del loro ciclo di studi dopo l'obbligo scolastico. Come rileva l'esperienza di ognuno, essi sono sovente privi di una effettiva corrispondenza alla realtà: ai tanti ragionieri non coincidono altrettanti bravi contabili e lo stesso vale per altri indirizzi. I diplomi non saranno ancora carta straccia, ma certamente non ci si può basare su di essi per esprimere un corretto giudizio su un neo-assunto o sul livello della conoscenza posseduta da una persona. Logica avrebbe voluto che un intervento riformatore ponesse come prioritario il superamento del loro valore legale, fatto questo che determinerebbe non solo la fine di una mistificazione ma darebbe inizio a una vera rivoluzione negli istituti e soprattutto nel rapporto tra la società e la scuola.

 

La retorica vecchio/nuovo che contraddistingue la propaganda governativa ha, nel caso della “buona scuola”, raggiunto gli apici. In realtà, l’esito normativo prodotto va in tutt’altra direzione. L’ormai trentennale pratica di semplificazione del percorso scolare è oggi contraddistinta dalle promozioni elargite come sanatorie di “debiti formativi” mai saldati, spesso “caldamente consigliate” in sede di scrutinio proprio da quei presidi ai quali si concedono poteri abnormi, senza tener conto di come è avvenuta la loro selezione spesso rispondente a criteri meramente burocratici o clientelari. Da e per troppo tempo, a fronte della delega formale data alla scuola per ottenere certi risultati, sia gli studenti che le loro famiglie (e ormai gli stessi docenti) hanno nel profondo la convinzione che siano altre le vie per conseguirli.

 

Così come ormai da vari decenni, anziché formare e istruire, la scuola serve ad altro: ad alleviare le famiglie dalla difficile cura di una popolazione minorenne, altrimenti priva di ogni minimo controllo; ad ammortizzare la disoccupazione intellettuale; a rilasciare titoli di fatto screditati, ma pur sempre necessari nell'ambito di professioni contraddistinte dalle pastoie corporative. È una verità di cui tutta la società ha preso atto, anche se stenta a confessarlo in primo luogo a sé stessa. Che sia così è provato dai concreti comportamenti dei vari soggetti politici e sociali: l’imprenditoria, per esempio, non tiene in nessun conto la scuola; gli intellettuali ne fanno l’oggetto di discussioni e polemiche, ma si guardano bene dall’operare per cambiarla davvero; i legislatori ne hanno favorito il degrado, stringendo coi suoi utenti un patto scellerato per cui i primi concedevano una scuola facile ai secondi, i quali − a loro volta − da una parte gradivano ma, dall’altra, percepivano la vanità di quella concessione.

 

È da trent’anni che l’Italia, rispetto all’istruzione, si dibatte in questa disposizione contraddittoria. I vari tentativi riformatori fin qui susseguitisi hanno continuato a dar corpo alla speranza virtuale, nata nei laboratori di uno scadente sociologismo, indirizzata verso una scuola di massa e massificata insistendo in un equivoco di fondo: laddove si estende l’obbligo scolastico, si rincorre una impossibile eguaglianza culturale e si nega che anche lo studio presenta una irriducibile quota di talento personale, al pari di altre attività. È tempo di prendere atto che la uniformità dei curricoli delle materie non è intangibile e che andrebbe estesa l’area della opzionalità. Se, almeno in via subliminale, ora si avverte il bisogno di una “buona scuola” è perché quella che abbiamo è una “scuola naufragata”. Ma il suo naufragio non è dovuto al caso ed è importante capire come e perché sia avvenuto.

 

È indubbio che ancor oggi la società italiana stenta a percepire una utilità reale del “servizio scuola” così come viene effettuato. Se ne è avuta ampia dimostrazione con il numero contenuto di diplomati; con il ridotto impegno di spesa per la cultura e l’istruzione da parte delle famiglie, a prescindere dalle eventuali difficoltà economiche; con la radicata convinzione che il successo lavorativo non dipenda da adeguata preparazione, ma ancora dal sostegno familiare ed amicale.

 

Dagli anni Settanta in poi, la principale colpa delle politiche scolastiche consociative è stata quella di assecondare le tendenze prevalenti, senza offrire una concreta alternativa ai cittadini che – di conseguenza – hanno sempre più accentuato il disinteresse per la scuola. Decisiva, in tal senso, è stata la scelta di operare il sostanziale smantellamento del merito all’interno della vita scolastica. In un crescendo continuo si è proceduto, cedendo senza quasi nemmeno resistere alle spinte più demagogiche, a una devastante semplificazione del percorso scolare che ha contribuito a imprimergli un sigillo di oggettiva inutilità.

 

Culmine di questo processo è la riforma scolastica impostata dal ministro Luigi Berlinguer negli anni di governo dell’Ulivo (1996-2001), che possono dirsi il compiuto dispiegarsi del ventennio precedente. Un processo che ha condotto la scuola italiana alla progressiva burocratizzazione, trasformandola in un gigantesco contenitore predisposto più che altro all’accoglienza e di fatto incapace di trasmettere alcunché alle nuove generazioni. Si deve prendere atto che anche la nuova legge non si allontana più di tanto da quelle direttrici, che – va ricordato – hanno prevalso anche durante i governi di centrodestra, i cui interventi sulla scuola italiana sono stati – paradossalmente – in linea con esse. Infatti, la legge 53/2003 (“riforma Moratti”) portò sì a una ri-denominazione dei percorsi già esistenti, ma nel 2006 – con il ritorno di Prodi al governo – fu cassata da una semplice circolare del ministro Fioroni, che riconsegnò alle burocrazie sindacali l’effettiva gestione del comparto scuola; mentre la cosiddetta “riforma Gelmini” del successivo governo Berlusconi nel 2008-2011, per quanto riguarda il riordino degli istituti professionali, di fatto ha seguito le linee guida indicate nella famosa “lenzuolata” di Bersani (legge 40/2007), ministro del Pd, che prevedeva all’art. 13 una “limitazione del monte ore”; la “riorganizzazione delle materie” (da cui, per esempio, l’eliminazione della storia dell’arte dal professionale turistico e grafico); la “riduzione degli indirizzi” dei tecnici-professionali da accorpare in ampi settori.

 

In conclusione, possiamo ben affermare che il naufragio della scuola si deve al combinato disposto dell’indifferenza presente nel complesso della nostra società e del conservatorismo profondo che contraddistingue gli instancabili fautori della “scuola democratica”. Perché come può essere definita, se non conservatrice e illiberale, un’azione volta nei fatti a ridurre la diffusione del sapere e a limitare le libertà di scelta?

 

La matrice di ispirazione del processo “riformatore”, che si è prolungato fino ai nostri giorni, è contrassegnata da una volontà autoritaria, che – da un lato – avversa qualunque autonomia del singolo e, dall’altro lato, punta a inibire a priori ogni possibilità di riscatto culturale e sociale, perché costringe tutti gli studenti in gabbie livellatrici, trascurando del tutto che la società moderna si fonda invece proprio sulla differenza e che, solo attraverso la sua valorizzazione, potrebbe aprirsi una prospettiva di crescita individuale e collettiva.

 

(da Quaderni Radicali 111, speciale febbraio 2016)

 


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