L’Unione Europea sta attraversando un periodo di grandi tensioni che ne mettono a dura prova una navigazione difficile di fronte alla crisi economica e alla stentata ripresa, alle migrazioni di milioni di profughi, alla guerra alle porte e al terrorismo in casa…
Emerge soprattutto l’inadeguatezza delle classi politiche degli stati membri, incapaci di un confronto di idee (e non parliamo neppure di iniziative…): una situazione che rivela, oltre all’incapacità di adeguarsi alle necessità reali, la fine degli stati nazionali come luogo della democrazia.
Si naviga a vista in un tempo nel quale occorre il cannochiale. Gli stati membri reagiscono con iniziative proprie a problemi comuni, rivendicano sovranità per affrontare problemi urgenti, cercano di operare sempre con l’occhio al dato elettorale, in mancanza di luoghi di vere decisioni.
In questi giorni ha preso corpo l’accordo per il riconoscimento alla Gran Bretagna di uno status particolare in seno all’Unione, uno status del quale il tratto essenziale non sta tanto nelle clausole in difesa della politica e della filosofia economica inglese e dello stato sociale degli inglesi, quanto in un codicillo – tra l’altro non particolarmente sottolineato da stampa e media – che contiene il riconosocimento al Regno Unito del diritto di “tenersi fuori da ogni ulteriore integrazione”.
Si tratta della codificazione di un principio al quale i governi inglesi si sono sempre strettamente attenuti nel secondo dopoguerra, in armonia con la “special relationship” del paese con gli Stati Uniti, cardine dalla politica estera britannica ancorata alla posizione “insulare” nella quale gli inglesi si sentono definiti e nella quale si configura il rapporto di fondo nei confronti del “continente”, delle terre di là della Manica.
Intendiamoci bene. L’Inghilterra non ha voluto abbandonare l’Europa a se stessa, visti i disastri che ha combinato e che quindi potrebbe ancora combinare, in particolare quello di unificarsi mettendo con le spalle al muro l’ “isola” e costringedola a una revisione di tutte le proprie certezze; in Europa perciò ha voluto tenere un piede dentro, per controllarne le mosse. Pur tuttavia la formula oggi adottata per definire e consacrare il rapporto con l’Europa non sembra configurare una semplice codificazione della linea di condotta tradizionale (del resto mai messa per iscritto, anche se intuibile).
La formula oggi adottata infatti consta di due parti: le ultime quattro parole della formula nella quale il diritto alla non maggiore integrazione è stato sanciito testimoniano la presa d’atto che un’integrazione c’è stata, volente o nolente la Gran Bretagna, la quale perciò ritiene necessario trasformare un principio in un diritto ben definito (tenersi fuori), nella previsione che il processo di integrazione possa andare avanti.
Londra infatti ha dovuto prendere atto di Maastricht e di Schengen, della venuta in essere dell’euro e dell’apertura delle frontiere, fatti tutti che, pur tra mille ostacoli e contorsioni, lamentele e rimostranze rappresentano una tendenza destinata a proseguire (ad esempio: tentativi di arrivare a una Unione bancaria, proprosta del Tesoriere unico, garanzia europea per i risparmiatori/investitori europei di fronte a rischi di fallimenti bancari, proposta Merkel di aprire le fontiere ai profughi ecc.): certo proposte, proposte contestate, ma…. E allora meglio assicurarsi il diritto di tenersene alla larga.
In parole povere: fate quel che volete, ma io non ci sto. Questo ha preteso Cameron, interpretando il sentimento diffuso nel paese che probabilmente non arriva alle punte estreme della Brexit (36%: Brexit, 34%: restare, 30% quindi incerti), ma che con l’opportuna rassicurazione ottenuta dal continente spera di vincere il confronto con Nigel Farage.
Tutto resterà allora come prima? Non si direbbe. Londra infatti ha dovuto fare i conti con una realtà che la mette sulla difensiva e l’Europa, del resto, non vuole cacciare gli inglesi: fanno parte della nostra storia, sono un tramite con gli Stati Uniti dei quali abbiamo sempre bisogno, non meno per la politica estera che per quella economica, dispongono di una forza militare non trascurabile e della consapevolezza che certe volte l’uso ne è inevitabile. Ma con gli accordi di pochi giorni fa l’Europa a due velocità è un fatto compiuto.
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