Prendersela con Roberto Saviano, come fa Tullio De Mauro, attribuendogli una maniacale ossessione che gli farebbe scoprire camurrie anche nell’assegnazione del premio Strega, è ingiusto. In effetti, l’autore di Gomorra non ha detto nulla del genere. Ha solo lamentato che la sua candidata – Elena Ferrante (alias Anita Raja, secondo quanto rivelato da Dagospia), autrice della trilogia sull’ “amica geniale” – è arrivata terza in quanto pubblicava con una piccola casa editrice, anziché con uno dei due colossi (Mondadori e Rizzoli) che da svariati anni si accreditano il primo posto.
Va detto, tuttavia, che la lamentela di Saviano giunge quanto meno tardiva e non tiene conto di un aspetto fondamentale: è da almeno trent’anni che lo Strega è funzionale alle politiche editoriali e premia non tanto degli scrittori ma autori “di scuderia”. Farne scandalo nel 2015 significa comportarsi o come il novellino che scopre un fatto di tutta evidenza, o come un bigotto ipocrita.
Il dato essenziale è che da tempo lo Strega non ha più il “suo” pubblico, vale a dire quella borghesia genericamente progressista, riconoscibile nei clan amicali sorti attorno a figure dell’olimpo letterario degli anni Cinquanta-Sessanta.
Quel mondo è finito, appartiene a un passato nemmeno ben ricordato. Ad esso si è sostituita una compagnia di giro, che alterna le sue giornate tra comparsate televisive e uffici editoriali: non a caso gli ultimi vincitori sono spesso anche funzionari delle case editrici, che indossano in modo sgraziato i panni di scrittori. I libri vincitori hanno così la sorte delle canzoni delle ultime edizioni sanremesi: tutti le dimenticano e non riescono nemmeno a fischiettarle.
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