Ci è capitato di leggere sul Corriere.it (in un commento a firma Giusi Fasano) che nella sentenza con la quale la Corte di Assise di Appello di Perugia ha ridotto di dieci anni la pena inflitta di Salvatore Parolisi, il graduato dell’Esercito condannato per uxoricidio, "I giudici sapranno motivare ogni passaggio e capiremo, leggendo la sentenza, che hanno escluso quell’aggravante – la crudeltà – solo per amor di giustizia. Altra cosa è render tutto questo accettabile per chi piangerà per sempre l’assenza di Melania".
Alla fine del commento poi, premesso che a termini del codice per potersi addurre l’aggravante della crudeltà sarebbe stato necessario l’aver rilevato nel comportamento del condannato la volontà di infliggere altre sofferenze (oltre quelle causate dall’omicidio) e ravvisare nell’omicida un indole malvagia e nessuna umana pietà, si legge poi che "… la sentenza ieri dice che nella furia omicida di Parolisi tutto questo non ci fu".
Nel leggere queste considerazioni vien però spontaneo rilevare che, salvo l’uso della sfera di cristallo, non si comprende come sia stato possibile argomentare sulle motivazioni di una sentenza non ancora conosciute (lo dice, implicitamente, anche - in apertura - l’intervento) e soprattutto poi vien fatto di pensare che nessuna propria motivazione la sentenza di Perugia potrà recare sull’esistenza o meno della crudeltà, in quanto la Corte si è ieri pronunciata in sede di giudizio di rinvio da parte della Cassazione, che è il giudice che ha già escluso la crudeltà e ha rinviato al giudice della sentenza impugnata solo per fissare l’entità del conseguente sconto di pena.
Non solo, ma seguendo i passaggi fondamentali della vicenda processuale del condannato, si ricorda che in prime cure la pena inflitta fu quella dell’ergastolo, pena poi ridotta dalla Corte di Assise di appello a trenta anni, senza escludere la crudeltà. Sarebbe quindi un po’ troppo pensare che adesso i giudici di Perugia si abbandonino a una sorta di mea culpa, flagellandosi in motivazioni con le quali smentiscono le proprie precedenti convinzioni….
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Ma veniamo ad altro. È comparso in questi giorni in edicola un volumetto edito sempre dal Corriere della Sera in occasione della ricorrenza del centenario dell’entrata del nostro paese nella prima guerra mondiale (24 maggio 1915), un passo politico della massima (terribile) rilevanza specialmente per l’Italietta di cent’anni fa, nei propositi delle correnti nazionalistiche del tempo destinata a ben più alti, gloriosi, fatali destini. Tra parentesi si può anche ricordare che il Corriere, allora diretto dal Luigi Albertini, fu tra i quotidiani interventisti (come del resto lo furono quasi tutti, tranne la Stampa. Lo fu anche l’Unità di Salvemini…).
Ebbene, la pubblicazione commemorativa, nella quale compaiono tante grandi firme del giornalismo di oggi, non contiene nessun intervento dedicato al ruolo che la prima guerra mondiale ebbe nella maturazione dell’evoluzione politica che portò al trionfo di Mussolini, una crisi poi di portata europea, con sbocchi di natura tipicamente fascista in molti stati del continente. Un processo involutivo dei nazionalismi, nati quali veicoli di una libertà, che poi, costretta nelle strutture dei vecchi stati, era stata via via soppiantata dalle politiche di potenza, di autoritarismo, di conquiste militari e coloniali di cui questi erano sostanziati.
Ricordare il 24 maggio senza entrare nel merito di questa storica vicenda e soprattutto senza rilevare che dal secondo dopoguerra ad oggi le nostre democrazie "statizzate" stanno diventando sempre più incapaci di fare politica all’altezza dei tempi e sempre più esposte a tentazioni autoritarie, si configura veramente come un limite inconcepibile e inammissibile per un quotidiano che nutre le ambizioni del Corriere.
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