Per liquidare gli imponenti cortei di insegnanti, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha usato la formuletta secondo cui quello della scuola è uno “sciopero politico”. Da parte sua, il premier Matteo Renzi ha dichiarato che quelli in piazza si crogiolano nella protesta – e “in alcuni casi hanno ragione” ha concesso, bontà sua – mentre il governo vestirebbe i panni di chi “fa le cose”.
Ma le cose non basta farle, occorre farle bene. Se leggiamo le ventidue fitte pagine del disegno di legge all’esame della commissione istruzione della Camera, scopriamo che ripetono vecchi cliché del “riformismo scolastico” di matrice genericamente progressista: dall’ “apertura al territorio” all’ “offerta formativa”, passando per la solita “autonomia” di cui non si definiscono mai i contorni rimanendo per ora criptate le risorse economiche ad essa dedicate.
Così com’è, il provvedimento rientra in quella produzione legislativa propedeutica più ad “apparire” innovatori, che non ad affrontare da subito i principali problemi che rendono la nostra scuola ben poco “buona”. Manca il segno di una reale svolta, che pure ci sarebbe stato se – per esempio – si fosse posto mano all’abolizione dell’attuale esame di Stato o del valore legale dei titoli di studio, presupposto indispensabile per cambiare l’insano rapporto che si è instaurato fra la società italiana e la scuola.
La retorica antico/nuovo che contraddistingue la propaganda governativa ha, in questo caso, raggiunto gli apici. In realtà, a fronte di una vigilia di annunci e di propositi che lasciavano intravedere una pallida consapevolezza delle questioni concernenti la scuola, come ad esempio l’assenza del merito e la necessità di ridare importanza al processo formativo delle giovani generazioni, l’esito normativo prodotto va in tutt’altra direzione.
L’ormai trentennale pratica di semplificazione del percorso scolare, contraddistinta dai dalle promozioni elargite come sanatorie di “debiti formativi” mai saldati, spesso “caldamente consigliate” in sede di scrutinio proprio da quei presidi ai quali il ddl vorrebbe concedere poteri abnormi, senza tener conto di come è avvenuta la selezione dei presidi stessi, ha generato una scuola “facile” ma di fatto inutile.
A tale pratica si deve il fatto – denunciato sul «Corriere della Sera» da Roger Abravanel – “che abbiamo un terzo del numero di giovani con i risultati migliori che in Finlandia e in Canada e la metà che in Francia”. Se, almeno in via subliminale, ora si avverte il bisogno di una “buona scuola” è perché quella che abbiamo è una “scuola naufragata”.
Un naufragio che si deve al combinato disposto dell’indifferenza presente nel complesso della nostra società e del conservatorismo profondo che contraddistingue gli instancabili fautori della “scuola democratica”. Perché come può essere definita, se non conservatrice e illiberale, un’azione volta nei fatti a ridurre la diffusione del sapere e a limitare le libertà di scelta?
Quella che si delinea è una scuola che finisce per annullare ogni possibilità di riscatto per i figli meno fortunati e desiderosi di emergere dalla morta gora della mediocrità, perché con la sua iniziativa legislativa il governo modella una scuola nient’affatto nuova, ma che ripresenta i caratteri assunti dalle scuole pubbliche americane oltre quarant’anni addietro e, fortunatamente, di là dall’Atlantico abbandonati per tempo. La scuola del “principal”, il preside capo-ufficio, del comitato di quartiere che si accapiglia tra Darwin e la Bibbia, dove si fa di tutto tranne che apprendere qualcosa e prepararsi per il futuro.
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