Su «L’Espresso», nella rubrica ereditata da Bocca, Roberto Saviano interviene per sostenere l’urgenza di una riforma del sistema giudiziario. Lo fa a partire dalle mancate dimissioni del presidente della Regione Lombardia, Formigoni, sostenendo che il politico del Pdl agisce così perché consapevole della lentezza dei processi in Italia e del fatto che può contare sulla prescrizione.
Questo modo di impostare il problema indica che esso è mal recepito: nella mente dell’autore prevale una concezione per la quale la persona è sempre subordinata a qualche entità collettiva (sia lo Stato e i suoi ordini burocratici, a partire dalla corporazione giudiziaria; sia la società civile e la dittatura di un’opinione pubblica sempre più invadente, dai reali scopi spesso inconfessabili).
La prescrizione è un danno innanzi tutto per l’indagato che non può usufruire del sacrosanto diritto a una sentenza, che egli auspica evidentemente assolutoria. Va inoltre evidenziato un altro aspetto: è la magistratura stessa il vero soggetto da cui dipende la prescrizione.
Si dice sovente che essa dipende dalla possibilità o meno di prolungare i procedimenti, grazie agli artifici degli studi legali: l’indagato che può disporre di valenti avvocati sarebbe in questo senso avvantaggiato rispetto a chi non è in grado di versare cospicui onorari. Sappiamo, però, che non è sempre e solo così.
Basti considerare taluni processi nei quali sono stati coinvolti importanti personaggi pubblici. In alcuni casi essi sono giunti rapidamente in Cassazione (per Craxi occorsero, ad esempio, due o tre anni); in altri, a oltre dieci anni dai fatti si attende ancora lo straccio di una sentenza (vedi il caso dell’inchiesta sull’operazione Arcobaleno, della gestione dei fondi di aiuto all’ex Jugoslavia). Eppure, sia gli uni che gli altri hanno certamente avuto abili difensori e, di certo, non erano privi di risorse.
Il problema della giustizia italiana non risiede pertanto soltanto nella prescrizione. Due sono gli aspetti principali che richiedono un mutamento: la mancanza di responsabilità (e di controllo) dei suoi operatori e il criterio assolutamente discriminatorio che presiede all’apertura delle inchieste. Da quest’ultimo, deriva pure il dosaggio delle amnistie di fatto rappresentate dalle prescrizioni.
Questi aspetti sembrano tuttavia sfuggire a Saviano, che non vede come ad essi risalga la vera anomalia del nostro Paese. Altrove le figure pubbliche si dimettono dalle loro cariche appena il loro nome entra in un carteggio giudiziario, dice lo scrittore.
Ma altrove non si indaga in base semplicemente alle chiacchiere da bar, né i magistrati svolgono funzioni apertamente politiche rimanendo nella comoda veste di vincitori di concorso, dalle carriere garantite automaticamente e né danno vita a vere e proprie falangi aggressive con giornali e trasmissioni tv di supporto.
E, soprattutto, altrove non si usa la carcerazione preventiva come mezzo d’indagine, tanto da riempire le prigioni di oltre il 40% di detenuti in attesa di giudizio così da attirare sull’Italia la vergogna delle condanne dei tribunali internazionali.
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