Dicono che, sulla scrivania del premier Renzi in cima a una pila di cartelle, ve ne sia una dedicata alla scuola, con su scritto "next 8 agosto". Dopo il giorno dell'approvazione della riforma del Senato, il primo impegno programmatico riguarderebbe cioè i cambiamenti da apportare alla nostra istruzione. Non sappiamo quali interventi si ripromette il governo, anche se abbiamo una convinzione: sarebbe bene che si rinunciasse a praticare il riformismo aggiuntivo, perché se c'è qualcosa di cui il nostro paese non ha bisogno è proprio la iper-produzione normativa.
Non si pretende qui di tirar fuori l'ennesima ricetta da sottoporre ai politici - anche se proprio da questo governo è tutta una richiesta di suggerimenti, dall'impiego pubblico ai magistrati - bensì crediamo sia opportuno evidenziare come, oggi, il mondo della scuola sia il luogo privilegiato della dissimulazione. E certo non è un bene che le future generazioni siano state e siano tuttora abituate a vivere in un contesto di finzioni.
Diamo di seguito qualche esempio, evidenziando come per cominciare a rimediare occorra più che altro tagliare leggi e norme, senza bisogno di aggiungerne altre.
Cominciamo dai titoli di studio che sono dispensati ai nostri giovani, al termine del loro ciclo di studi dopo l'obbligo scolastico. Come rileva l'esperienza di ognuno, essi sono sovente privi di una effettiva corrispondenza alla realtà: ai tanti ragionieri non coincidono altrettanti bravi contabili e lo stesso vale per altri indirizzi. I diplomi non saranno ancora carta straccia, ma certamente non ci si può basare su di essi per esprimere un corretto giudizio su un neo-assunto o sul livello della conoscenza posseduta da una persona.
Logica vorrebbe che si procedesse a un superamento del loro valore legale, fatto questo che determinerebbe non solo la fine di una mistificazione ma darebbe inizio a una vera rivoluzione negli istituti e soprattutto nel rapporto tra la società e la scuola, cosicché la prima non pretenderebbe dalla seconda la concessione - più facilitata possibile - del "pezzo di carta".
Altro elemento che evidenzia un meccanismo perverso di falsificazione riguarda i giudizi sui risultati scolastici. Ci si dovrà pur chiedere come mai a fonte di esami finali col 99 per cento di promossi, abbiamo esiti quasi disastrosi negli scrutini intermedi, per non parlare dei dati emersi dal confronto con le performance degli altri paesi. L'applicazione del cosiddetto "successo formativo" ha coinciso in realtà con l'assegnazione del 6 politico agli studenti meno preparati. È una incoerenza grave predisporre un esame finale con prove abbastanza complesse, dopo aver consentito nei quattro anni precedenti a promozioni facili: ne consegue che anche l'esame di Stato si riduca a una messa in scena.
Si insiste in un equivoco di fondo, laddove si estende l'obbligo scolastico, si rincorre una impossibile eguaglianza culturale e si nega che anche lo studio presenta una irriducibile quota di talento personale, al pari di altre attività. È tempo di prendere atto che la uniformità dei curricoli delle materie non è intangibile e che andrebbe estesa l'area della opzionalità.
Se poi guardiamo all'organizzazione della vita scolastica, scopriamo che essa si fonda su quanto prescrivono i decreti delegati, emanati ai tempi del ministro Malfatti. Un testo dei primi anni 70 (1974), che assorbiva il clima assembleare del 68 per trasferirlo in termini di legge nelle scuole, trasformate in palestre di agit prop. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, le priorità non sono più quelle di una partecipazione diffusa e tanto meno l'occupazione partitocratica dell'universo scolastico.
Oggi le assemblee studentesche sono un'altra delle tante recite cui ci si adatta passivamente, visto che l'obiettivo è solo quello di ottenere un giorno di vacanza. Lo si conceda di ufficio, permettendo a ogni istituto di calendarizzare un giorno di festa al mese e abbattiamo il muro dell'ennesima ipocrisia scolastica! Stesso discorso vale per l'elezione degli organi collegiali allargati a genitori, che ben di rado sono davvero coinvolti.
Insomma non sarebbe davvero una cattiva idea cassare di un colpo una legislazione ormai incoerente rispetto alle esigenze di oggi.
A richiedere la necessità di una rimozione altrettanto totale è l'idea aziendalista della scuola. Se c'è un ambiente alieno dalle prerogative dell'azienda, quello è la scuola, dove i principi quantitativi hanno davvero scarsa importanza. Il dialogo educativo è qualcosa di estremamente soggettivo: un giorno lo stesso docente può svelarci un mondo e un altro giorno annoiarci a morte; così pure i risultati didattici vanno misurati tenendo conto di molte variabili, dal coinvolgimento all'impegno e alla predisposizione.
Da qui deriva anche che immaginare la scuola come un ufficio con un direttore - il preside - al quale affidare un ruolo preminente significa snaturare la sua funzione di comunità. Tanto più che, una volta oberati di responsabilità, i dirigenti scolastici finiscono spesso per adottare le tecniche proprie del gioco dello scaricabarile delegando ad altri compiti impropri.
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