Una delle caratteristiche delle leggi elettorali, così come sono state promosse in Italia, è quella che in generale hanno corrisposto più ai desiderata dei partiti che non allo scopo di garantire un adeguato grado di rappresentatività e di stabilità degli organismi istituzionali. Per lo più, si procedeva in questo modo: si fotografava lo stato dell’arte e ogni partito sulla base di esso faceva le sue proposte di modifiche, all’inseguimento del massimo vantaggio per sé.
Così il Mattarellum, anziché rispondere all’indicazione referendaria del 1993 a favore dell’adozione dell’uninominale di stampo anglosassone, introdusse la quota proporzionale del 25% per garantire una rendita di posizione ai partiti minori che continuarono a esercitare il loro condizionamento. Altrettanto è avvenuto con il cosiddetto Porcellum, pensato per salvaguardare tanto una forma di controllo sulle candidature in partiti divenuti sempre più personalistici, quanto il bipolarismo uscito fuori dal ventennio della cosiddetta seconda Repubblica. Nemmeno la governabilità riuscì a garantire, dopo che l’intervento del Presidente della Repubblica Ciampi impose che il premio di maggioranza previsto venisse assegnato per il Senato su base regionale, anziché nazionale.
Da questo metodo, si attendeva che un movimento come quello delle 5 Stelle – così caustico verso la casta dei politicanti e autocandidatosi alla guida di un processo “rivoluzionario” – si discostasse in modo determinato e senza equivoci. A ben vedere, invece, dopo aver letto il documento inviato dai pentastellati al PD, si comprende che la musica non è affatto cambiata.
Contornati da considerazioni di non grande rilevanza politica, il nocciolo della proposta si riassume in questi termini. Un sistema di voto proporzionale, dove ogni partito si presenta senza formare coalizioni e, nel caso quasi scontato nessuno ottenga la maggioranza assoluta, un secondo turno riservato ai due soli partiti che hanno ottenuto più voti.
Di nuovo la fotografia dell’esistente: PD e M5S a confronto diretto, con l’esclusione di quasi la metà del resto dei votanti. Per mettersi ulteriormente al sicuro, il movimento di Grillo prevede che nel secondo turno chi prende più voti debba avere al massimo il 52% dei seggi. Il che significa attribuire un bel premio di maggioranza al… perdente, qualora quest’ultimo prenda meno del 48%. Come dire: all’alunno diligente che merita nove in pagella, gli attribuiamo solo sette, mentre al somarello – per non farlo sentire a disagio – il suo quattro lo trasformiamo in sei.
Una norma pensata giustappunto per come si è configurata la situazione alle ultime elezioni, con il M5S che – abbandonata la sicumera del “vinciamo noi” – si adatta a fare la parte del comprimario, riservandosi la possibilità di un ribaltamento del risultato qualora si riuscisse a convincere un 3-4% di deputati a passare dalla propria parte (20-25 eletti). Non c’è che dire: la logica è quella del massimo vantaggio, col minimo sforzo: a dimostrazione di quanto poco importino rappresentatività e stabilità di governo. Quale differenza ci sia fra questa impostazione e quella dei protagonisti della partitocrazia è alquanto problematico capire.
A questo va aggiunto che tutte le leggi elettorali di cui si discute, come pure alcuni interventi istituzionali operati nel recente passato, hanno in comune il fatto di non tenere in alcun conto i caratteri politici, storici e culturali dell’Italia. Essi ci dicono che è un Paese dove è connaturato il multipartitismo – come dimostrano le stesse divisioni interne manifestatesi all’interno dei partiti-contenitori della stagione bipolare (Ulivo, Casa della Libertà ieri; PD e PDL dopo) – e dove un federalismo alla Svizzera è impraticabile, laddove rimane irrisolto il dislivello economico fra le diverse realtà regionali.
Buon senso vorrebbe che si tenesse conto di questi dati di fatto e che si operasse per intervenire sul grado di legittimazione democratica degli organi costituzionali e su un efficace sistema di equilibrio fra efficacia nelle decisioni di governo e livelli di rappresentatività del corpo elettorale. Di fronte alle alchimie degli odierni apprendisti stregoni, non vorremmo che alla fine rimpiangessimo la “legge truffa” del 1953.
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