Si è portato dentro questo tormento per trent’anni, troppo a lungo: Diego Marmo il Pubblico Ministero nell’udienza di primo grado, alla quale seguì la condanna del popolarissimo conduttore televisivo per reati di camorra e di droga, che ora chiede scusa alla famiglia Tortora, per aver usato qualche frase di troppo nell’arringa pronunziata. Dopo un anno Enzo Tortora fu assolto in appello.
Un caso umano tremendo, che distrusse l’imputato (poi deceduto poco dopo l’assoluzione). Un caso sconvolgente al livello diffuso, che ebbe risonanza estesissima nel paese per l’immensa notorietà del personaggio coinvolto e per la simpatia che lo circondava nel grande pubblico. Ma insieme un caso, con tanti altri, rivelatore di una tendenza di una parte della giurisprudenza a considerare "prove" non veri e propri fatti, ma argomentazioni, ragionamenti, deduzioni, sillogismi, in parole povere "teoremi", come è invalso l’uso di definirli.
Tortora era stato accusato da personaggi assai poco credibili, pregiudicati o condannati e gli elementi ricavabili dal famoso taccuino avevano una forza probatoria pressochè inesistente, al punto che la sentenza assolutoria in appello arrivò entro tempo estremamente breve.
A questo punto le motivazioni interiori che possono aver portato al pentimento il PM Marmo, ora in pensione (che inopportunamente si trasforma adesso in "assessore alla legalita'" del Comune di Pompei), riguardano la sua coscienza, ma quanto interessa, e tanto, ribadire in questa sede, è la natura essenziale che il doppio grado di giurisdizione riveste al fine di assicurare al massimo il giusto processo, anche perché, se vengono meno i principi (ancora una volta "liberali") per la valutazione dell’onere della prova, la giustizia si mette su una brutta strada.
Preme ribadirlo proprio in questo momento, come già veniva ampiamente chiarito nell’intervento di ieri sugli "affanni della giustizia", perché dopo tanti anni finalmente sta arrivando in Parlamento una proposta di riforma di ampia articolazione a cura del governo, nella quale peraltro, a quanto riferito ieri da Repubblica, sembra penda "una mannaia sulle impugnazioni", compresa tra le misure intese ad abbreviare la durata dei processi.
Il secondo grado di giudizio comporta una seconda valutazione della causa nel suo complesso, e specialmente quando si tratta della libertà personale, il vecchio proverbio che i "quattro occhi vedono meglio dei due" non può essere trascurato. I giudici di appello hanno più anni di carriera e di esperienza alle spalle; hanno anche qualche anno in più: e nell’iconografia come nella fantasia popolare il giudice porta la parrucca e ha la barba bianca.
Una revisione del processo penale dal quale derivi privazione della libertà personale si configura come una garanzia irrinunciabile, specialmente se il processo di primo grado non si è svolto con un procedimento di tipo accusatorio, con formazione delle prove in udienza e in pieno contraddittorio fra le parti. In Italia non siamo ancora a questo...
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