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16/11/24 ore

Avventure e disavventure del Partito democratico


  • Silvio Pergameno

Il ballottaggio alle comunali dell’8 giugno non ha confermato l’avanzata segnata dal partito alle europee del 25 maggio ed è apparso come una consultazione segnata da stanchezza e usualità. Certo lo scandalo “Mose” può avere avuto il suo peso, ma non sembra questo l’evento che possa aver marcato l’esito.

 

Molto più determinante sembra dover considerare il fatto che si trattava di eleggere sindaci di paesi e città e che quindi gli elettori si sono trovati costretti nei soliti problemi e nelle solite piccole dispute che animano il tran tran locale. Così sono molto aumentate le astensioni, hanno ripreso un po’ di fiato i 5 stelle, conquistando la roccaforte di Livorno, mentre il centro destra ha espugnato Perugia, due città dove la sinistra aveva un solido impianto tradizionale.

 

Alle europee il discorso era stato molto diverso; alle europee si è sì votato, certo, sempre con attenzione al panorama italiano, ma il PD si presentava con una faccia rinnovata, si presentava da solo, senza cioè restar vittima della tradizionale direttiva del non avere nemici a sinistra (pilastro del vecchio corso), si presentava cioè all’insegna della famosa vocazione maggioritaria, offrendo all’elettorato moderato di sinistra un’apertura che corrispondeva a una vecchia aspirazione.

 

In sostanza il PD si trova sempre davanti a un vecchio dilemma che fu proprio anche del PSI: non avere nemici a sinistra e partecipare ai fronti popolari o tentare nuove strade: fu il percorso di Craxi, che però ha duramente pagato il non esser riuscito a ripensare il partito (o averlo poco tentato). E oggi questo problema sembra riproporsi per quella sinistra che governa l’Italia e dimostra che, con certi presupposti, può anche vincere un’elezione.

 

Ma cosa succede intanto nel PD? Che il partito oggi provenga da un recente passato nel quale i problemi non sono mancati mentre altri urgono alle porte è fatto che non viene ignorato. Ne ha parlato in questi giorni Gianni Cuperlo, l’avversario di Renzi, in un lungo articolo comparso sul “Foglio” del 4 giugno ultimo scorso, nel quale in primo luogo si richiama l’attenzione sul fatto che il successo di un partito carismatico può rivelarsi effimero e che l’identità del partito non può ridursi alla parabola del suo leader. Non basta la capacità di cogliere gli umori e tradurli in traguardi streganti. Dietro una vocazione maggioritaria esiste un elettorato che si ispira a valori diversi, e questo pluralismo deve trovare una sintesi nella cultura del partito, altrimenti si accentua la volatilità del consenso che si è manifestato.

 

Cuperlo contesta quanti ritengono che alle europee si sia espressa una nuova grande formazione neo-centrista (una specie di nuova DC), che dà la buona notte a una sinistra confinata ormai nei ricordi, nei miti, nelle anticaglie. Tutt’altro. Si è espresso invece un popolo che si rivolge alla sinistra non per consuetudine, ma per voglia di novità. Cuperlo non ignora la realtà; ammette che si sia perduto troppo tempo e un’infinità di treni, mentre tutto è cambiato: volti, linguaggio, gerarchie. Per pigrizia si è rinunciato per anni a contrastare il conservatorismo e “chi doveva cambiare si è convinto di essere insostituibile”.

 

La sinistra ha pensato a proteggere se stessa e deve invece mostrare coraggio e rabbia sulle cose che contano. E non si schiera contro Renzi, perché non si tratta di mettersi di traverso sulle riforme, tutt’altro, ma è indispensabile rispettare i principi, se no l’utopia precipita nella retorica. Occorre immaginare un altro stato che nasce, c’è una coscienza civile da ripensare e ambiguità pesanti da cancellare.

 

Ma a questo punto il discorso, fin qui tenutosi su una linea sostanzialmente aperta, si richiude. Perché, mentre ci si attende lo sviluppo di una riflessione sulle ragioni dei ritardi di questo partito, sui motivi che hanno determinato un percorso di conservazione, il discorso si sposta. Già intanto l’idea di affidare al partito il ventilato ruolo di luogo della sintesi della pluralità di valori emergenti da una società che esprime variegate istanze di rinnovamento ripropone acriticamente, a ben vedere, la vecchia posizione novecentesca della centralità del partito: ma quale partito? Il partito che doveva governare il blocco storico degli operai e dei contadini? il partito centralizzato e onnipresente con la sua struttura burocratica e le sue ramificazioni, che faceva del sindacato la cinghia di trasmissione della sua politica e che è finito invischiato nei meccanismi corporativi della concertazione e della mediazione degli interessi particolari, luogo privilegiato per lo sviluppo delle degenerazioni?

 

E Cuperlo inizia invece a parlare di riforme costituzionali, continua a esprimere preoccupazioni per una certa tendenza a intaccare il ruolo supremo del legislativo e per la mancanza di orizzonti e la scarsa coscienza democratica del paese, che porta a ripetere il passato, riafferma la priorità delle riforme dell’amministrazione pubblica,del fisco, dei tempi della giustizia (soltanto dei ‘tempi’?) e poi volge verso i temi dell’economia: recuperare gli investimenti fissi, un new deal… ma sono solo tamponi o non riaffrontare invece il tema della riforma del capitalismo? Un piano di spesa pubblica per il lavoro e investimenti finanziati in disavanzo (concordato su scala europea…) Quel capitalismo che produce ingiustizia, distruzione di risorse esauribili, mentre il m mercato da solo non assicura nessun equilibrio…

 

Il discorso si sposta proprio dove dovrebbe iniziare. Certo è verissimo che il mercato non assicura nessun equilibrio: ma il problema non è certo sconosciuto nelle società in economia di mercato. Che la concorrenza non si assicuri con il laissez faire era tema di fondo nel pensiero di Luigi Einaudi e in terra tedesca ha ispirato l’economia sociale di mercato…

 

Letto l’articolo di Gianni Cuperlo il lettore di formazione liberale resta a bocca asciutta

 

 


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