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26/12/24 ore

Il divorzio e il referendum del 13 maggio 1974. Lettera aperta a Giuliano Ferrara


  • Silvio Pergameno

Avant'ieri era il 13 maggio, la ricorrenza del grande avvenimento di quarant'anni fa, quando il referendum per l'abrogazione della legge sul divorzio (voluto soprattutto dall'ala integralista del cattolicesimo italiano - sostanzialmente impersonata da Amintore Fanfani) subì una clamorosa sconfitta, marcando senza dubbio alcuno una svolta epocale nella vita politica (non meno che in quella sociale) dell'Italia contemporanea.

 

L’”Elefantino”, con l’usuale stile immaginifico e fluente, ha voluto ricordare questa data, sottolineando nei tratti salienti la particolare rilevanza dell’evento per la nazione italiana, in termini peraltro non poco lontani dallo spirito che quella battaglia animò.

 

E fu una battaglia complessa e difficile: il mondo cattolico, intanto, era diviso (la divisione sul tema – e quindi sul voto referendario – derivava da un’altra più profonda), ma poi fu necessario combattere su due fronti, perché diviso era anche lo schieramento politico laico, niente affatto compatto nella volontà di combattere, o per l’incomprensione dei tanti a sinistra per i quali si trattava di una battaglia sovrastrutturale o per il miope calcolo di un PCI che vedeva minacciato il famoso “dialogo”, nato sotto l’alta insegna del blocco storico e dell’unità delle forze popolari tutte come cardine della via italiana al socialismo (e finito nel meno storico e nel più corporativo dei compromessi). 

 

Vinse il “no” perché già in partenza alla questione del divorzio erano interessati o quanto meno sensibili almeno diciassette milioni di italiani (altro che lusso borghese); perché divorzi belli e buoni erano tanti e tanti degli annullamenti canonici (meglio “dichiarazioni di nullità”, di inesistenza iniziale di matrimoni, durati magari una vita e allietati da tanta bella prole) e motivati con contorte alchimie “probatorie”.

 

Perchè al mondo si contavano sulle dita di una mano i paesi nei quali lo scioglimento del matrimonio non fosse ammesso; perché tutti compresero che il divorzio non era la causa del fallimento di un matrimonio, ma una presa d’atto di una tale evenienza e lo strumento per regolarne in qualche modo le conseguenze; perché alla fine si comprese anche che nell’ottica dei promotori del referendum la finalità più profonda stava nella rivendicazione dell’incompetenza dello stato in materia matrimoniale, massima aspirazione di un temporalismo accanito, che già all’interno della stessa Chiesa aveva cominciato a vacillare quando proprio dall’alto erano – tre lustri prima - venute la distinzione tra peccato e peccatore e l’accentuazione della dimensione pastorale della gerarchia, con un dubbio, quanto meno, sulla funzione punitrice della struttura ecclesiale.

 

L’”Elefantino” vede nella vittoria del no, di quel “no”, l’apertura di un precipizio senza fondo nel quale stato e società italiana sono precipitati: finito il matrimonio, arrivate le nozze gay e la sinistra complessità della procreazione assistita e l’aborto come diritto… Già, l’aborto di stato…da dove è arrivato? La proposta radicale si fermava alla depenalizzazione del “fatto”, che è stata la strada seguita dalla Germania; il resto lo dobbiamo all’accanimento, di una forza politica in particolare, nella volontà dell’esercizio di un controllo penetrante e diffuso su tutta la vita sociale e alla conseguente invasione delle istituzioni.

 

Non siamo, comunque, la nazione più sprofondata nell’abisso del permissivismo, ma resta il fatto che l’ arretratezza diffusa del paese e la distruzione di quel tanto di classe politica laica che si era formata e si andava formando (meglio) attorno al PSI di Craxi ci fanno trovare meno attrezzati di altri popoli ad affrontare i rischi sempre connessi ai processi profondi di innovazione. E senza dimenticare che i radicali italiani non hanno mai voluto essere partito, sia pur piccolo, ma aperto e coeso, con la volontà di formare una classe dirigente.


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