Va di moda nel dibattito politico sulle riforme costituzionali il superamento del bicameralismo perfetto. Si dice: basta con due Camere che fanno le stesse cose e in tanti propongono la differenziazione, mentre i più arditi si spingono fino a chiedere l’abolizione di una.
Al di là dei tatticismi, ci si chiede tuttavia se è davvero questo l’intoppo che impedisce alle nostre istituzioni di essere efficienti. Il Congresso degli Stati Uniti si compone di Camera dei Rappresentanti e di Senato: anche lì il percorso di una legge è sottoposto alla doppia lettura, ma non per questo si verifica quanto accade in Italia.
Evidentemente non è la presenza delle due Camere a costituire un problema, ma i modi e i percorsi del processo decisionale. Con un esecutivo in balia dei partiti o delle pressioni incontrollate, è inevitabile che tutto si ingarbugli. Immaginiamo che esista soltanto la Camera dei deputati: davvero si crede che finirebbe lo stravolgimento delle proposte di legge o le tortuosità dovute agli interventi lobbistici?
Si è visto bene come in assenza di forme partito radicate, si apra uno spazio praticamente infinito per i gruppi di pressione che agiscono intervenendo sui deputati, spesso in cordata fra gruppi politici diversi.
Il nodo vero resta sempre quello della legittimazione popolare del potere esecutivo e il grado della sua autonomia rispetto agli altri organi istituzionali. La proposta del Sindaco d’Italia aveva un senso solo in quanto inseriva una forma presidenzialista, capace di fare da contrappeso all’assemblearismo spesso disordinato e confuso.
Se si optasse per la conferma del parlamentarismo puro e semplice, con una Camera anziché due non cambierebbe gran che.
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