Il tema delle riforme istituzionali è bloccato ormai da molto tempo. Sembra sia necessario parlarne continuamente per avere la certezza che non si faccia nulla. Da quanti anni ormai si parla di cambiare la forma di Governo del Paese? Quanti seminari tra giuristi, storici e scienziati della politica si sono conclusi proclamando l'urgenza delle riforme e indicando ad una classe politica, spesso incompetente, soluzioni pratiche per correggere le falle maggiori del sistema istituzionale?
La pantomima delle riforma continua inesorabile dagli anni ‘70 con scarsi risultati. Poche cose sono state fatte aprendo spesso problemi peggiori. Come il caso della riforma del titolo V, che ha generato un orrendo regionalismo (che nulla a che vedere con la migliore tradizione federalista italiana), che ha aumentato i conflitti di attribuzione con lo Stato e che ha alimentato uno squilibrio negli enti territoriali in favore delle Regioni.
In questi mesi, a partire dall’appello che il Capo dello Stato ha mosso al Parlamento e raccolto dal Governo Letta, si è riaperto il sipario e rispuntano gli attori di sempre a recitare la stessa parte nella certezza che anche stavolta l’esito sarà lo stesso, nulla. Quali sono questi attori? Ne propongo solo i principali. L’attore principale è il “Grande riformatore”, spesso interpretato dal Governo e talvolta da alcuni leader di partito.
Il Grande riformatore spinge per cambiare tutto e subito perché l’Italia è in emergenza e il sistema non si può modificare secondo le prassi ordinarie. Bisogna accelerare, fare presto per dare al Paese ciò che non ha mai avuto, efficienza e rapidità di decisione. In genere il “Grande riformatore” propone una revisione ampia della Costituzione che ridisegna completamente gli equilibri dei poteri magari imitando modelli stranieri di moda in quel momento.
Tuttavia, la carica iniziale posta con determinazione spesso comincia a svuotarsi dopo poco tempo. L’urgenza diventa meno urgente e in genere in questi casi viene pronunciata la frase fatale: “Bisogna fare riforme condivise”. Ma condivise da chi? La nostra Costituzione affida al Parlamento la potestà di riformare la Costituzione lasciando la possibilità del ricorso a referendum. La condivisione delle riforma deve quindi sussistere tra i partiti. Ed ecco qui il problema serio che si pone.
Come possono i partiti, che sono stati primi responsabili del disastro istituzionale che osserviamo ogni giorno, concorrere a riformare il sistema? Su questo problema si arenano le spinte, anche le più sincere, del “Grande riformatore”. C’è da aggiungere che spesso tali spinte non sono neanche tanto sincere. C’è stato chi ha usato il tema delle riforme solo come arma di lotta politica (spesso interna al proprio partito) per ottenere visibilità, consenso immediato da usare contro i propri avversari. Per questo, una volta che “l’arma” ha avuto il suo effetto, si getta via.
Tuttavia, il “Grande riformatore” non potrebbe mai avere il suo ruolo se non si trovasse al suo fianco una spalla eccezionale interpretata da numerosi attori: “I difensori della bella Costituzione”. Spesso partiti minori, docenti universitari, persone della “società civile” che urlano al Golpe, al colpo di Stato all’eversione antidemocratica del potente di turno. Ma cosa significa “bella Costituzione”?
La bellezza della Costituzione è un tema profondamente ambiguo che nasconde una falsità intellettuale inaccettabile. Che i principi enunciati nella prima parte della Costituzione possano essere considerati “belli” si può anche affermare. Ma ciò che mi interessa è che tali principi trovino nella carta costituzionale gli strumenti operativi per concretizzarsi. Nella storia sono state scritte Costituzioni meravigliose nell’enunciazione di nobili principi di libertà e democrazia senza che tali principi avessero poi trovato il minimo strumento per realizzarsi.
Nel caso italiano direi che esattamente questo è accaduto. Il sistema istituzionale che è stato progettato dalla Costituzione non funziona. Ricalca chiaramente un meccanismo da 4° repubblica francese, che al tempo si riteneva utile per evitare derive autoritarie. Un sistema così centrato sui partiti e sulla debolezza cronica dell’esecutivo avrebbe impedito la rovina della giovane Repubblica italiana.
Lo stesso sistema di garanzie (funzioni del Capo dello Stato e autogoverno della magistratura) erano state pensate in chiave di tutela dei partiti (in particolare del PCI) e non come sistema di garanzie per la tutela dei cittadini. Lo dimostra il fatto che tutti gli organi di effettiva partecipazione democratica (referendum) e di tutela dei cittadini (Corte Costituzionale) siano stati attivati con colpevole ritardo e realizzati in modo da arrecare il minor danno possibile agli equilibri tra i partiti.
I difensori della Costituzione ignorano questo? Non credo che sia ignorato. Nessuna persona dotata di un minimo di onestà intellettuale può affermare serenamente che l’attuale sistema istituzionale risponda alle aspettative poste dai principi costituzionali. Infatti, spesso gli argomenti si concentrano non sulla difesa del passato ma sul timore del futuro. In sostanza si ritiene che questo sistema, che certamente funziona male, sia comunque un baluardo contro derive autoritarie.
Si ripropone il vecchio argomento della difesa della democrazia attraverso un sistema caotico ed inefficiente. Ragionamento smentito dall’osservazione storica. I sistemi non equilibrati ed inefficienti sono esposti alle derive autoritarie più facilmente di altri. In realtà chi desidera veramente salvare la costituzione, non come un feticcio di legalità formale, ma come strumento concreto per attivare diritti ed equilibrare i poteri delle Istituzioni, non può che chiedere insistentemente la riforma del sistema istituzionale.
Desidero affrontare alcuni temi sollevati dai difensori della Costituzione per evidenziare quelli che ritengo essere degli stereotipi e pregiudizi sulle proposte di modifica presidenziale che ripetutamente vengono presentate all’opinione pubblica. In primo luogo, sembra quasi che le derive autoritarie siano insite nel sistema presidenziale e per dimostrarlo si citano ripetutamente le esperienze latino americane del ‘900.
Penso sia necessario fare chiarezza su questo rischio. I sistemi presidenziali latino americani avevano senza dubbio caratteri propri che spesso hanno impedito quel sistema di pesi e contrappesi che sistemi presidenziali più consolidati avevano. Resta comunque da ricordare che in molti casi le derive autoritarie in America latina sono state poste attraverso colpi di stato militari che hanno spazzato via i sistemi civili di potere.
Tali vicende si iscrivono nella specifica storia di quel continente (il ruolo politico dell’esercito, il contrasto anti-comunista voluto dagli USA ecc…) non tanto sul funzionamento del sistema presidenziale che in molti casi è stato di forte ostacolo a queste derive. Anzi se dovessimo osservare la storia europea dovremmo concludere che i sistemi parlamentari con caratteri di proporzionalità marcata e con una forte debolezza degli esecutivi, presentino molte più probabilità di degenerare in sistemi autoritari.
Un secondo elemento di critica verso il presidenzialismo che di recente è emerso dalle parole del Prof. Zagrebelsky, considera tale sistema il più consono alla pressione delle lobby. Questo argomento mi ha decisamente sorpreso, perché gioca su uno stereotipo antiamericano abbastanza sciocco. L’idea che i gruppi di pressione possano avere una maggiore capacità di influenzare la vita politica in un sistema presidenziale rispetto ad altri non è confermata da alcuno studio.
Ci sarebbe da chiedersi, in Italia non esistono gruppi di pressione che esercitano pressione sulle istituzioni per bloccare o promuovere politiche più o meno gradite? L’osservazione quotidiana mostra che la debolezza degli esecutivi favorisce l’effettivo ruolo di veto player anche al più piccolo gruppo di pressione.
Il sistema presidenziale invece pone dei limiti alla pressione dei gruppi di interesse poiché spinge ad una mediazione di interessi con le istituzioni politiche. In conclusione, il tema delle riforme istituzionali si pone al centro del problema italiano. Nessuno dei gravi problemi che abbiamo di fronte può essere risolto se il meccanismo di funzionamento delle istituzioni politiche è inceppato.
Negli ultimi venti anni sono stati fatti pochissimi cambiamenti senza mai toccare questioni strutturali. Oggi si rimette in scena quello spettacolo sulle riforme con gli stessi attori di sempre, ma i toni tendono a passare sempre di più dalla commedia alla farsa. C’è solo da sperare che non finisca in tragedia.
Zeno Gobetti
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