Forse il Pd non necessita di un accalappiacani, come pare abbia affermato D’Alema, ma certo la confusione di intenti al suo interno va sempre più assumendo caratteri patologici, che vanno al di là della libera dialettica politica.
Dopo la direzione, conclusasi con un nulla di fatto, risulta ancor più compromessa la capacità di reagire da parte di una classe dirigente che testardamente rifiuta di affrontare il nodo vero e strategico della “questione liberale” irrisolta nel centrosinistra italiano.
Assistiamo a continui mutamenti di fronte, ribaltamenti strumentali, alleanze e contro-alleanze fra correnti che in realtà non paiono esprimere alcunché di apprezzabile da un punto di vista politico. Le cronache descrivono un Renzi impaziente di andare presto al voto, dietro al quale si riuniscono quanti sino a pochi giorni fa lo avversavano.
Si costruiscono coalizioni fra gruppi totalmente in contrasto tra loro sul piano del merito delle proposte avanzate: a dimostrazione che il confronto pseudo-programmatico fra statalisti a oltranza e modernizzatori è solo di facciata, poiché quel che conta davvero è altro.
A tutto questo si aggiunge una incoerenza di fondo che investe ogni aspetto dell’azione politica. I “giovani turchi”, per bocca di Fassina, scoprono che il carico fiscale è talmente oppressivo che quasi obbliga all’evasione se si vuole sopravvivere; ma poi non fanno che accondiscendere alla demagogia anti-impresa e varano provvedimenti inutilmente sanzionatori per chi vanta crediti dallo Stato.
Su un altro fronte, altri gruppi si fanno condizionare oltremisura dalle campagne di stampa del quotidiano debenedettiano e smontano quanto è stato faticosamente costruito in Parlamento solo per inseguire l’articolo dell’ “intellettuale” di turno, che a una lettura minimamente critica risulta esprimere spropositi giuridici tesi a svincolare la pubblica accusa perfino dalla raccolta di prove.
Manca una guida politica, perché manca la chiarezza sulla direzione da seguire per avviare un processo riformatore. Il fenomeno è tanto più preoccupante perché anche dalle personalità che meglio avrebbero dovuto incarnare il momento dell’innovazione (a cominciare dalla “risorsa” Renzi) non perviene alcun segnale di coerenza.
Eppure il percorso è segnato dalle cose stesse: l’Italia ha bisogno di una rivoluzione liberale, che dia maggiore responsabilità agli individui investendo ogni settore del vivere civile. Un fisco più leggero da un lato, ma più efficace dall’altro; norme sul lavoro che permettano di superare le ingessature e rendano il nostro Paese più simile agli altri, dove la perdita del posto non è un dramma perché è facile cambiare; una giustizia meno invadente, che intervenga per soddisfare le emergenze reali dei cittadini comuni; salvaguardare diritti in nome della libertà di scelta e non delle mode transeunti del politically correct.
Finora dal Pd provengono per lo più strepiti e trambusti, piuttosto che voci in grado di declinare un percorso politico dai tratti liberali e riformatori.
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