L’assoluzione - ad opera del tribunale di Palermo, giovedì scorso (18 luglio) - del generale dei carabinieri Mario Mori e del colonnello Mario Obinu, per il presunto mancato arresto nel 1995 del boss mafioso Bernardo Provenzano, è un fatto della massima rilevanza non soltanto per gli imputati (soggetti del massimo rilievo messi sotto accusa proprio per comportamenti inerenti alle loro funzioni) e sotto il profilo giudiziario, ma al livello del tormentato rapporto fra giustizia e politica, che, ormai da tempo troppo lungo, affligge il quadro politico e istituzionale del nostro paese.
E proprio per questo motivo appare opportuno tornarci sopra a distanza di qualche giorno, dopo le reazioni a caldo del primo momnto.
E in primo luogo occorre tener presente la circostanza che l’assoluzione è avvenuta con la motivazione che “il fatto non costituisce reato”, il che ovviamente significa che i comportamenti tenuti dai due ufficiali e che costituivano la base dell’accusa, sono stati accertati come rispondenti a verità, ma non presentano profili penalmente rilevanti. Non si tratta quindi di un’insussistenza del fatto o di una questione di prove, ma della costruzione giuridica fatta dall’accusa, al fine di ricondurre il “fatto” nell’ambito delle fattispecie penali configurate (favoreggiamento, concorso esterno in associazione mafiosa, minaccia a corpo giudiziario).
Il gen. Mori aveva ottenuto già altra vittoria in sede giudiziaria nel 2006 sempre dall’accusa di favoreggiamento per non aver provveduto alla perquisizione del covo di Totò Riina, nel momento in cui il boss era stato arrestato, e le due assoluzioni concernono quindi episodi rilevanti nel quadro di un terzo processo, avviato sempre dalla Procura di Palermo. Un vero maxiprocesso anzi quest’ultimo, stante l’ampiezza dei tempi cui i fatti si riferiscono e non meno quella dei fatti e soprattutto del rilievo dei personaggi coinvolti, la famosa “trattativa tra stato e mafia”, nella quale il rapporto tra politica e giustizia viene in primissimo piano.
Della questione si è già parlato martedì scorso (16 luglio) prevalentemente sotto il profilo dello sconvolgimento del quadro politico e istituzionale che pronunce dei giudici possono provocare, mettendosi in rilievo la necessità di una considerazione oggettiva della vicenda nella sua portata più ampia più che sotto i profili della regolarità formale e sostanziale della decisione o delle colpe dei giudici.
La “trattativa” intanto è un fatto tutto da dimostrare, perché presuppone l’esistenza del famoso “disegno criminoso” complessivo che sembra assai difficile da ricostruire, soprattutto per l’estensione temporale cui i fatti si riferiscono e il numero dei personaggi coinvolti; essa presuppone l’esistenza di una mafia da una parte e di uno stato dall’altra, mentre le cosche erano frazionate e rivali e la presenza dello stato ha preso corpo con diversi esponenti politici come Andreotti, Martelli, Mannino con obbiettivi diversi , Mannino ad esempio perché minacciato di morte o Dell’Utri (con l’ombra di Berlusconi alle spalle) al fine di stabilire (o ristabilire)un rapporto di convivenza con la mafia) mentre i membri del governo e i carabinieri avevano di mira la necessità di evitare stragi.
In altri termini, contatti ci possono essere stati, ma come singoli episodi, sparsi nel tempo e in contesti diversi, e caratterizzati, per la parte dello “stato”, dal perseguimento di finalità di carattere non criminoso e anzi rientranti proprio nei compiti di sicurezza che governo e forze di polizia debbono perseguire in ragione delle loro finalità istituzionali e nell’ambito dei poteri che ne caratterizzano l’esercizio. Nel processo che ha per oggetto la “trattativa” quindi è in gioco la divisione tra poteri dello stato, che rappresenta un linite all’azione giudiziaria, la quale può quindi estendersi solo fino a quando si ravvisino singoli espliciti reati e anche qui nel rispetto delle garanzie che circondano i membri del governo e del parlamento. E senza dimenticare che sulla materia sono intervenuti anche due altri giudizi, a Palermo e a Caltanissetta, conclusisi essi pure senza condanne.
Sul tema è stato scritto un approfondito saggio da un illustre giurista, il prof. Giovanni Fiandaca, titolare della cattedra di diritto penale dell’Università di Palermo, pubblicato dalla rivista “Criminalia”, ripreso dal quotidiano “Il Foglio” e poi riassunto sull’ultimo numero di “Quaderni Radicali” (n. 109), uscito qualche giorno fa.
Quello che deve essere tenuto presente è che con il processo sulla “trattativa”, appena iniziato, viene in discussione la configurazione stessa del potere giudiziario: se esso sia un potere “terzo” rispetto agli altri due, che opera in difesa della legge, da cui deriva l’autonomia della magistratura, o se se ne voglia fare un contropotere che si oppone al potere legislativo e a quello governativo, e che così finisce, oltre tutto, con il caricarsi di un ruolo politico che non gli compete e che minaccia l’indipendenza dei giudici.
Un’altra considerazione: la giustizia italiana ha necessità di riforme profonde, anche al livello costituzionale, ma partire da un’impostazione preliminarmente polemica nei confronti della magistratura è un errore imperdonabile, perché proprio le ricordate sentenze assolutorie testimoniano che all’interno della magistratura stessa esistono profonde divisioni, che trovano alimento proprio nelle incertezze del quadro dei principi costituzionali del nostro processo; basti pensare che perfino la parte processuale che impersona l’accusa viene trattata nel capitolo sulla magistratura… (“requirente”, una “parte imparziale”.Il pubblico ministero infatti resta un ossimoro, come ai tempi di Alfredo Rocco).
Non ne esce bene, comunque, sul piano dell’informazione, la maggiore stampa nazionale, ben schierata su posizioni giustizialiste e oggi alla ricerca di sminuire, di non raccogliere, di non dare troppo peso, di evitare discorsi approfonditi: ha voluto perdere l’occasione di aprire un dibattito di alto livello, in un momento politico nel quale l’iniziativa sarebbe stata sommamente necessaria.
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