Tante volte il come è addirittura più importante del perché. È il caso di ciò che accade nel Pd, che si avvia a tenere la sua Assemblea nazionale. Il problema principale di quel partito, infatti, non è nel risultato elettorale inferiore alle attese, né nei contrasti intestini, né nella diffidenza di tanti iscritti e simpatizzanti verso il governo guidato dall’ex vicesegretario. E non è neppure nel disagio della componente di matrice Ds o negli “autoconvocati”.
Soffermiamoci per un istante sulla parola prospettiva. Essa indica due concetti: punto di vista (o vertice osservativo, angolatura) e orizzonte. Ebbene: oggi al Pd paiono mancare entrambi. Silvio Berlusconi, paradossalmente, mentre subisce una condanna in appello, prova a indossare i panni dello statista, appellandosi al senso di responsabilità nazionale dinanzi ai problemi gravissimi che ci affliggono.
I dirigenti dem, dal loro canto, non riescono a lasciar intravedere un’alternativa allo stato di cose attuale. Ribadiscono che l’esecutivo Letta rappresenta una sorta di parentesi, in nome dell’emergenza. Si può concordare. E altrove, nel mondo, dalla Germania a Israele, non sono mancate “grandi coalizioni”, in momenti difficili.
Ma cosa ci sarà dopo? E, per dirla tutta, cosa c’è stato prima? In fondo una lunga, interminabile stagione, dalla “solidarietà nazionale” all’Ulivo di Prodi, è stata da molti, probabilmente dai più, vissuta appellandosi all’emergenza, che il nemico fosse il terrorismo o il Cavaliere. Prima, almeno, il “fattore K” era d’ostacolo all’ingresso diretto del Pci nel governo; come è noto, quel fattore impediva una fisiologica democrazia dell’alternanza.
E oggi? Cosa impedisce di lavorare per l’alternativa? Perché sembra arduo o impossibile solo semplicemente pensare al dopo? La risposta – torniamo qui al come – è che manca il soggetto del cambiamento. Come si può essere tali se non facendo leva sull’area laica, socialista, liberale, radicale?
Cosa può nascere mortificando, al contrario, quell’area? E si badi bene: non ci riferiamo a pezzi di ceto politico, bensì alle sensibilità e alle istanze presenti nella società e nella cultura italiana più vicine ai propositi di innovazione autentica.
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