Nella gestione della presente crisi politica il Presidente Napolitano ha rafforzato la linea del novembre 2012: una svolta nella prassi costituzionale (o meglio incostituzionale) seguita e progressivamente consolidata nella storia della prima Repubblica e che rappresenta quindi un fatto politico del massimo rilievo.
Se è vero, infatti, che tale interpretazione appare conforme al dettato costituzionale, per il quale il Capo dello Stato non è un mero notaio, è altrettanto vero che un Capo dello Stato che per sessantacinque anni si è limitato ad esercitare un minimo di funzioni ha costituito una componente essenziale dello stato dei partiti, al quale quindi Napolitano ha dato una pesante batosta. I partiti, invece, hanno fatto finta di niente e hanno continuato a tenere gli stessi comportamenti di prima, a litigare tra loro e all’interno delle loro formazioni, come se questo dovesse essere il loro ruolo, come se i problemi che li affliggevano fossero quelli della nazione, anche nell’affrontare le elezioni.
Berlusconi colpevole come tutti, per aver aperto la crisi che ha portato ad elezioni anticipate in un momento nel quale non ce n’era in alcun modo necessità, ma che gli ha consegnato in mano l’agenda politica e lui se ne è servito per rifarsi una legittimità. E il risultato delle elezioni ha rappresentato per tutti la giusta punizione. Berlusconi sconfitto nonostante la rimonta e sconfitto per effetto della sua stessa legge elettorale; il PD che non ha vinto, se non formalmente e dopo aver strenuamente difeso il porcellum; e il M5S, finito subito nello scompiglio, già afflitto da tentazioni poco raccomandabili e già avviato sulla via del declino, con la botta sonora presa alle elezioni regionali nel Friuli Venezia Giulia, dove ha perso quasi un quinto dei suffragi.
Questi avvenimenti possono segnare la fine della prima Repubblica, della quale abbiamo assistito alla lenta trentennale agonia, da quando la DC – l’asse portante - ha cominciato a sgretolarsi. E non c‘è stata nessuna seconda Repubblica, della quale solo oggi si può intravedere qualche segno di avvio. Così come la discussione e la mediazione sul vero terreno della politica possono fondare un vero ruolo per l’opposizione, altrimenti risospinta sul terreno del mero ribellismo, seguito dal lento assorbimento nell’inciucio.
Il governo di coalizione che Napolitano vuole (altrimenti ha lasciato capire che, se non gli si dà retta, ne trarrà le dovute conseguenze) rappresenta – come già la formazione del governo Monti - uno schiaffo per quanti pensano che la lotta politica si sostanzi degli interessi e delle beghe di partito: è un’umiliazione che viene inflitta al partitismo e che può aprire alle riforme costituzionali, cui è sempre mancata la base politica. E la condotta di Napolitano non è affatto un tentativo di pacificazione tra forze che litigano per i propri interessi; e solo nella prospettiva di ricondurre la politica alla cura degli interessi nazionali un governo di coalizione non sarà un inciucio, la cui caratteristica è quella di essere un accordo spartitorio fra partiti.
La destra, si sa, si è ridotta a un solo uomo, al quale ha finito per affidarsi, e non è stata in grado di fornire prospettive credibili; Berlusconi ora appare pentito mentre nel PD sconvolto dalla crisi della vecchia dirigenza cerca di affermarsi una nuova generazione politica, della quale la vittoria nelle elezioni in Friuli può rappresentare un prima performance.
Con quali prospettive? Il fatto generazionale di per sé non è determinante. Di “giovani turchi” ce ne sono sempre stati in tutti i partiti... ma la nostra Turchia è rimasta… ottomana. Tuttavia nell’intervista rilasciata da Matteo Renzi a La Repubblica (lunedì scorso) emergono due novità di rilievo. Intanto la dissociazione da entrambe la componenti degli anziani che hanno dato vita al PD, quella popolare e quella postcomunista: può essere un segnale che non si tratta soltanto di un fatto generazionale.
La seconda novità è che Renzi ha detto che con Vendola vuole mantenere un contatto, ma che non gliene importa niente se c’è un altro partito di sinistra alla sinistra del PD. Si è trattato di un inciso, non di un’ argomentazione svolta con l’ampiezza e i riferimenti che essa meriterebbe. Ma è pur sempre una voce dal sen fuggita, che rappresenta l’indicazione di un cammino opposto a quello del vecchio PCI, che avversari a sinistra non ne voleva a nessun costo, in nome di un’unità che sfociava nel fronte popolare e che dovrebbe contenere proprio il superamento delle logiche sulla cui base è nato il PD.
È presto per dire se sarà la volta buona o se si tratta dell’ennesima impotente paralisi. Il test sarà la legge elettorale, che sarà nuova se garantirà il diritto di tutti i cittadini di essere veramente eleggibili oltre che elettori, in condizioni di parità, garanzia di eletti che non rispondono ai partiti. Semipresidenzialismo? Sì, ma non basta il tentativo di assicurare la governabilità: è indispensabile emancipare i cittadini dalla sudditanza ai partiti; non basta neanche abolire il finanziamento pubblico ai partiti, bisogna assicurare agli eletti gli strumenti, i servizi perché possano esercitare le loro funzioni. Si torna sempre ai principi del liberalismo: e il discorso, va da sé, è rivolto a tutte le forze politiche, alla destra non meno che alla sinistra.
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