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17/11/24 ore

Cosa attendersi nel Pd?


  • Silvio Pergameno

L’annuncio di un “manifesto” per il Partito Democratico diffuso giorni fa da Fabrizio Barca - esponente di primo piano del PD - con tante proposte offerte al dibattito in questa fase tanto delicata e non priva di aspettative, ha subito scatenato la prevedibile ondata di commenti, interessati, preoccupati, scettici…anche se gli snodi di fondo della vicenda postcomunista restano quanto meno inespressi.

 

La sua ambizione è quella di rinnovare il PD, facendone un partito di vera sinistra (di qui la favorevole accoglienza da parte di Vendola), e non di centro sinistra, e un partito di tutta la sinistra (senza nemici a sinistra, in parole povere), con l’ennesima riproposta del fare politica dal basso e avvalendosi di internet per il contatto con i cittadini, però con dibattiti approfonditi, pensiero forte e non pensiero debole, rinnovato centralismo democratico per evitare il partito che si forma attorno a una persona…

 

Ma non il vecchio partito di massa che era la forma adatta ai tempi della scarsa diffusione del sapere, organizzando discussioni e confronti per selezionare la classe dirigente e via di questo passo… e scarso entusiamo per le primarie, che diffondono pericolose illusioni, come quella di riprodurre la democrazia elettiva ai danni di quella partecipativa…e ricostruire dal basso e dal territorio con l’immancabile richiamo alla società civile, e superare la contraddizione tra capitale e lavoro, mettendo d’accordo Squinzi e Landini, su una visione complessiva futura dell’Italia e su una lista di principi generali… e contrapporsi al c.d. “minimalismo”, cioè alle tendenze liberiste di riduzione del ruolo dello stato e così avanti…

 

Tanti i commenti; i più significativi si sono soffermati sui passaggi che mordono sul terreno dello scontro reale. Così Paolo Cirino Pomicino, a suo tempo dirigente e parlamentare di lungo corso della DC, che vede nel PD un ogm non riuscito dovuto all’innesto sulla vecchia cultura comunista o postcomunista del ramo democratico cristiano e pone accanto al Barca ricostruttore (non nello stesso partito, se mai alleati) un Renzi con radici che affondano in un cattolicesimo politico oggi disperso tra mille inutili contenitori partici e che il sindaco fiorentino dovrebbe recuperare (la lingua batte dove il dente duole).

 

Su un diverso piano Michele Salvati (Corriere della Sera del 15 aprile) economista cattedratico, a suo tempo parlamentare dell’Ulivo e teorico del Partito Democratico, quale sintesi – ecco la novità - del riformismo cattolico e di quello socialdemocratico.

 

Poco convinto Salvati della nuova sinistra di Barca (che poi quasi sostiene una candidatura di Renzi alla Presidenza del consiglio), anche se nel futuro occorrerà stare a vedere, perché, senza voler troppo sottilizzare, esiste in tutti i partiti socialisti europei una contrapposizione tra liberaldemocratici e socialdemocratici, come in Inghilterra fra blairiani e antiblairiani (sostenuti dai sindacalisti), con storie analoghe salvo i diversi contesti e tenendo conto del fatto che in Italia c’è anche il conflitto fra laici e cattolici.

 

Ma soprattutto Salvati è scettico, non a torto, sulla speranza di Barca di convincere il partito (cioè l’apparato) a distaccarsi dalla comoda dipendenza dalle istituzioni pubbliche e dalle carriere, quando è tanto meno faticoso tuonare contro la riduzione della spesa pubblica e l’assenza di politiche keynesiane.

 

Tant’è, ma a ben vedere ciò che maggiormente colpisce nella “memoria” di Fabrizio Barca è il senso di déja vu che di continuo ne emerge, nella più piena astrazione dallo storico contesto della vicenda postcomunista e dalle ragioni dell’attuale crisi del PD, e non solo del PD, quando il problema reale sta nel percorso illiberale di tutta la vicenda del PCI che parte dal dialogo con i cattolici di togliattiana memoria e sfocia nel compromesso storico e che ha significato il trionfo sul cattolicesimo liberale di quello così detto sociale, dossettiano lapiriano e fanfaniano, convinto di essere di sinistra perché fautore dell’intervento dello stato nell’economia nel quadro della tradizione corporativa, con connessa falsificazione di tutto l’evolversi della vita politica italiana: i disastri delle partecipazioni statali, gli scarsi esiti dell’enorme spesa per la Cassa del Mezzogiorno, la collusione tra pubblico e privato ( all’origine di tanti guai di oggi), e poi la sclerosi del movimento sindacale, i partiti come macchine di potere, l’assalto alle istituzioni e ai denari dei cittadini.

 

I due commenti di Pomicino e Salvati, se si salvano da tante banalità correnti, soffrono comunque dello stesso vizio di origine. Pomicino fa riferimento e ripropone a Renzi un cattolicesimo politico generico e indifferenziato, dimenticando, soprattutto, che De Gasperi ha risollevato l’Italia del dopoguerra con Luigi Einaudi, che era più un liberale cattolico che un cattolico liberale, consapevole del fatto che l’intervento dello stato in economia non si misura sotto il profilo quantitativo, tanto o poco, ma sotto quello qualitativo del freno ai monopoli, cui tende naturalmente la concorrenza abbandonata a se stessa (come sperimentiamo oggi su scala mondiale con il monopolio della finanza e in assenza di un potere di intervento a livello europeo e atlantico…)

 

E per Salvati addirittura la tormentata storia del socialismo continentale è talmente una questione di trascurabili sottigliezze che per fare un esempio incappa proprio sull’esperienza del laburismo inglese, che con il socialismo europeo ha ben poco a che fare e che annovera nelle sue fine un Tony Blair, addirittura inspiegabile, nella pratica di governo, senza la premessa thatcheriana. Al solito: la questione liberale!


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