Non è chiaro se prevalgano le ragioni tattiche (un accordo sotterraneo tra Bersani e Berlusconi finalizzato ad un patto – forse debole ma necessario – che porti un candidato gradito al Pdl al Quirinale e il segretario del Pd a palazzo Chigi, con un governo minoritario che guiderebbe le elezioni anticipate ma con lo stesso Bersani candidato premier per il centrosinistra), o siano le ragioni di opportunità che hanno maggiore peso (Renzi, stimolato dai sondaggi e nonostante il freno a mano tirato per contenere i suoi, avverte che il tempo è quello giusto per tirare il colpo del k.o. e diventare il leader del partito democratico).
Ma che fine farebbe il Pd? La domanda è lecita considerando le stilettate non certo amichevoli che si scambiano i vari capi, capetti e attendenti nel maggior partito del centrosinistra.
“Ormai è guerra, anzi è la guerra nucleare…”, annuncia Renzi ai suoi, così come scrive Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera e le reazioni non sembrano dolci (“…Se Renzi vince la battaglia interna il Pd non regge e si divide…” avrebbe spiegato Ugo Sposetti ad un amico e ancora tra il serio e lo scherzo Massimo D’Alema avrebbe detto qualche tempo fa “…Se nel Pd prevale la linea Renzi, io vado a fare un grande partito della sinistra con Nichi Vendola…”).
Trascurando tutti i possibili “ribaltoni” interni, con molti presunti bersaniani pronti a diventare renziani (vedi i giovani turchi), con i veltroniani che già si muovono nella scia del sindaco di Firenze e con molti malpancisti che restano immobili nello smottamento ma che sono pronti a saltare sul carro dei vincitore – secondo la più “nobile” tradizione del belpaese – come è il caso di molti ex democristiani (Franceschini, Enrico Letta, Rosy Bindi), si attendono le mosse del leader maximo D’Alema che non sembra, per innata “accortezza”, propenso ad immolarsi per il segretario.
Dunque uno scenario, quello del Partito democratico, tutt’altro che roseo. Ma la questione, osservata dal punto di vista di una sinistra liberale e democratica, ci riporta al modo in cui il Pd è nato, all’insieme di contraddizioni che formarono la piattaforma del “nuovo” partito sorto sulle chiacchiere intorno alla sintesi di due presunti riformismi, quello post-comunista e quello della sinistra democristiana, ma che nella realtà erano due oligarchie con nessuna volontà di affrontare la "questione liberale". In fondo queste caratteristiche rendono difficile pensare a differenze tra i vari attori del Pd.
Quando – scrivevamo nel 1999 su «Quaderni Radicali» – si tenta di individuare una transizione per una riforma del welfare, si scopre che in Italia non si tratta solo di definire le ragioni della crisi dello Stato assistenziale, ma di dover fare i conti con quella che si può definire la “società delle conseguenze” che pretende di affrontare la crisi avendo completamente saltato la fase di un autentico libero mercato … Il preteso ricambio della classe dirigente (si fa per dire …!) è avvenuto in Italia all’interno di un sistema politico arcaico, in cui le dialettiche sono state solo il prodotto di faide di palazzo e mai di un processo di confronto/scontro democratico capace di apportare una evoluzione realmente consapevole da parte dell’intera collettività.
Ma cosa si deve intendere per 'società delle conseguenze'? È la società delle contraddizioni ingessate e mai risolte, che contiene in sé la crisi del welfare e il blocco di tutte le sperimentazioni di un’evoluzione in chiave autenticamente liberale e democratica. È evidente che dentro questi schemi la crisi politica non ha trovato e non troverà soluzioni, che la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni si ridurrà ulteriormente e che i caratteri di frammentazione dilateranno ancor di più la crisi della politica.
Da molti decenni sottolineiamo che l’Italia non ha un solo strumento in grado di rifondare i nuovi principi e i nuovi valori su cui basare gli assetti sociali futuri. E questo, come appare sempre più evidente, la espone a tutto il gioco delle contraddizioni che la globalizzazione economica ha prodotto e continua a produrre. Un Paese senza effettivo libero mercato, pre-moderno, nell’atteggiamento velleitario, sommario e vessatorio, che non ha preparato luoghi di riforma e inoltre fa sperpero di roboanti espressioni di onestà, di diritto, senza assicurare un’oncia di legalità e di regole effettive.
Non esiste un solo settore del nostro sistema – la giustizia, l’economia, la sanità, la scuola, le istituzioni bancarie, i servizi, l’informazione pubblica e privata – che non sia parte della crisi, proprio perché il Paese non ha fatto i conti né sembra volerli e poterli fare con la propria sostanziale arretratezza e mancanza di regole. Ma le fratture che ci stanno davanti a chi sono da ascrivere? Se il sistema dei partiti non è in grado di rispecchiare in modo naturale e spontaneo le frantumazioni sociali, di analizzarle e di ricomporle è perché esso ha mantenuto una sostanza profondamente illiberale che ha visto nell’individuo, nella sua autonomia, nella sua libertà, nella sua responsabilità il nemico da abbattere e non il soggetto sul quale fondare le speranze del cambiamento e la compattezza del corpo sociale.
L’alternativa resta sempre più circoscritta tra una autentica rivoluzione liberale e un drammatico scivolamento verso un declino che può avere risvolti autoritari. Gli attuali mandarini, di destra e di sinistra, mancando di ogni vera coscienza liberale, appaiono i simulacri di una burlesca Corte di Parma.
Oggi non si tratta di conservare un ordine sociale – anche e in particolare di fronte ai sommovimenti che stanno accadendo nel mondo – ma di creare condizioni sociali che tutelino la libertà personale e la diversità culturale.
“ … A partire dalla metà del XIX secolo, sono occorsi grandi sforzi ai pensatori e ai politici europei per capire che non stavano più vivendo le conseguenze della Rivoluzione francese, ma la nascita della società industriale e dei suoi conflitti, allo stesso modo oggi dobbiamo compiere una difficile mutazione, se vogliamo essere attori di un mondo in trasformazione …”.
Questo ci indicava Alain Touraine in uno dei suoi efficaci saggi. Occorrono forze autenticamente liberali e democratiche. Il punto decisivo resta dunque nella sinistra post-comunista il non aver fatto i conti con la propria storia. Oltre le invettive antiberlusconiane, qual è il programma economico, sociale, culturale della sinistra che può essere offerto agli italiani come vera alternativa? Molto spesso non si dice nulla per non scontentare gli interessi corporativi che presiedono certi settori sociali, oppure si dicono cose diverse per evitare conflitti.
Ma se annullare la cultura liberale, laica, socialista, radicale può dare la sensazione di cementare, in realtà neutralizzando una cultura di governo liberale si finisce per rendere la sinistra inefficace e subalterna a tutte le lobbies nazionali e internazionali.
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