Carta vince carta perde, nessun trucco signori, l’asso vince. Ancora oggi, per esempio a Napoli nelle zone popolari adiacenti la stazione centrale, si formano capannelli di persone attorno a un tavolino prêt-à-porter per il mitico Gioco delle tre carte. E si fa fatica a credere che esista ancora chi cede alla tentazione della fregatura accertata e conclamata con abile destrezza. Fatte le dovute differenze e le opportune proporzioni, la vicenda dei malcapitati obbligazionisti delle banche popolari, salvate per decreto dal fallimento, allo stesso modo fa pensare e fa chiedere come sia possibile oggi rivendicare il "maltolto" per un investimento consigliato e venduto - ancora nel 2015, anno del signore - come “sicuro”.
Non siamo infatti mica negli anni '80 del secolo scorso, quando con un bel giro di parole e tante balle, si cercava di affascinare l’ignaro esercito di Bot people per attaccarli al giogo dell’acerba Piazza Affari? Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e il cosiddetto Parco buoi ha avuto più di un’opportunità per meglio comprendere il funzionamento di finanza e mercati con annesse distorsioni.
Il mito della certezza assoluta dell’investimento cadde con la crisi argentina e i molti possessori italiani di Tango bond (rifilati a tempo scaduto dalle banche) provarono a proprie spese che anche uno Stato sovrano può essere lasciato fallire con tutto il suo fardello di debito pubblico; figuriamoci il resto. Ma anche la bolla della New economy non fu da meno, trasformando in un incubo il bel sogno di quanti avevano creduto nell’arricchimento facile, grazie all’acquisto azionario di aziende fatte di fuffa che raddoppiavano e triplicavano il proprio valore capitale già dal primo giorno di quotazione.
Cosa dire poi degli scandali di Cirio e di Parmalat o dei furbetti del quartierino, che tanto scalpore suscitarono per la truffe, in barba alle regole e ai sedicenti organi di controllo? E se qualcuno allora non capì, a chiarire le idee è stata la crisi dei mutui subprime del 2007, con tutto ciò che ne è conseguito fino ad oggi, lasciando pochi alibi a chi oggi sbandiera ignoranza sui i rischi che corrono i nostri denari ovunque vengano messi. Anche perché, ad ogni scandalo o crisi finanziaria, il dibattito conseguente ha consentito e permesso di ottenere una maggiora informazione che, evidentemente, non è servita o non è stata sufficiente. Almeno ad ascoltare quei sottoscrittori delle pur redditizie obbligazioni subordinate rimasti con un palmo di naso.
Molti di questi dicono di aver perso tutti i risparmi, come se non fosse ormai nota la regola aurea in finanza che sconsiglia vivamente di collocare tutte le mele nello stesso paniere, a maggior ragione se questo è molto piccolo e instabile. Se ciò è accaduto, può essere stato per motivi diversi e differenti: per negligenza, per la prospettiva di alti interessi offerti in periodo di deflazione, oppure per "scarsa educazione finanziaria", come dice il ministro Padoan.
È possibile, forse probabile, che ci sia stato anche il raggiro. Del resto, gli istituti di credito organizzano corsi ad hoc per i dipendenti, al fine di catechizzarli su come rifilare (legalmente) il paccotto ai correntisti. Peggio ancora, può esserci stato per alcuni un sottinteso ricatto, come per i dipendenti invitati a sottoscrive titoli della banche datrice di lavoro oppure per chi bramava un mutuo che sarebbe stato concesso solo a condizioni capestro.
Ma se di illecito si è trattato, questa è una faccenda che va accertata per via giudiziaria, come molti sottolineano in questi giorni, valutando i fatti caso per caso. Sarebbe invece un grave errore, un rimedio inopportuno e inappropriato, se il governo intervenisse in qualche modo per ricompensare elettoralisticamente gli obbligazionisti con i soldi pubblici. Sarebbe un precedente pericoloso oltre che un azzardo morale che falsa i giochi e il mercato dei “capitali di rischio”.
Piuttosto è compito dell’attuale governo e del suo premier chiarire alcune cose prima di tutto, dissolvendo se è possibile la nebbia di interessi in conflitto che si è addensata in queste ore e che riguarda non solo la genesi del decreto che ha salvato Banca Etruria e compagnia bella, ma che fa riferimento – come spiega Nicola Porro sul Giornale - a fatti e circostanze di inizio anno, a cavallo della riforma delle banche popolari voluta da Renzi.
Non va altresì trascurata l’annosa questione che investe i sedicenti organi di vigilanza e controllo. In proposito, un ottimo articolo di Oscar Giannino stilato a notizia fresca, viene spiegato con dovizia di particolare come e perché in tutto il casino delle obbligazioni subordinate vendute ai risparmiatori, quando invece erano destinate agli investitori istituzionali, Banca d’Italia e Consob c’entrano non poco; anzi, molto. Come c’entravano in passato per la loro sbadataggine in altri scandali finanziari.
Una riforma del settore, di cui ciclicamente si parla, che dipani davvero la matassa di altri interessi in conflitto fra controllori e controllati, definendo meglio ruoli, responsabilità e pene in caso di errori e omissioni, andrebbe messa all’ordine del giorno. Questo non nell’illusione di risolvere e scongiurare una tantum i problemi, ma almeno nella speranza di ridurne al lumicino la ripetibilità. Il sistema può infatti reggersi se c’è la fiducia degli investitori nel rispetto di regole chiare e nell’affidabilità dell’opera svolta dai guardiani della loro corretta e legale osservanza.
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