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16/11/24 ore

Job act, la versione vecchia dei “giovani turchi”


  • Antonio Marulo

In “una repubblica democratica fondata sul lavoro” non può che giocarsi sul lavoro il destino del Paese, del Governo Letta e forse anche del Partito democratico. Almeno così sembra, a giudicare dal dibattito politico natalizio, consumato aspettando la panacea di tutti i nostri mali: il job act di Matteo Renzi.

 

In proposito non si conoscono ancora i dettagli, ma sono bastati un po’ di slogan elettoralistici del sindaco di Firenze e qualche indiscrezione fatta filtrare ad arte per spingere l’ala sinistra del Partito democratico, raccolta nella corrente dei cosiddetti “giovani turchi”, a prendere carta, penna e calamaio e smontare il presunto impianto dell’ennesima riforma della riforma.

 

L’idea, non certo nuova, – hanno scritto pochi giorni fa alcuni esponenti del Pd capitanati da Matteo Orfini - secondo cui sarebbe sufficiente agire sulle regole del mercato del lavoro e sulla formazione per creare occupazione e ridurre il gap occupazionale fra giovani e adulti, nonostante l’indubbio successo di cui ha goduto nel dibattito pubblico di questo ventennio, è del tutto priva di riscontri fattuali”.

 

Nell’esporre le proprio tesi, prendendo per altro spunto da qualcosa ancora campata in aria, la cosiddetta fronda nel Pd prova a ribaltare gli schemi in voga: maggiore flessibilità non si traduce in più occupazione ed è sbagliato ritenere che siano state “le tutele forti dei padri a rendere precari i figli”, quando invece “è stata la precarizzazione dei figli a indebolire le tutele dei padri”.

 

Tradotto: tutte le conquiste fin qui ottenute in termini di diritti, ma anche di privilegi, non si toccano. Le garanzie dei garantiti vanno pertanto garantite; piuttosto va risollevata l’asticella dei precari, uscendo dalla trappola di una legislazione che ha incentivato l’uso dei contratti atipici.

 

Cosa fare, dunque? Certo non quello sussurrato nelle “anticipazioni della proposta Renzi" sul contratto di inserimento a tempo indeterminato con possibilità di licenziamento a prescindere dall’articolo 18, che “verrebbe accompagnato da una indennità di disoccupazione e dall’obbligo alla formazione per chi perda il lavoro”. Inorriditi, i “giovani turchi” vedono con “stupore” l’ipotesi paventata di sostituire “altri ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione in deroga…con un sussidio di disoccupazione universale a parità di risorse”.

 

Meglio guardare al problema “con gli occhi delle vittime della crisi e non con le lenti di qualche giuslavorista apprendista stregone…, ragionando su come "universalizzare almeno alcuni diritti." Come per esempio ”la copertura per malattia e maternità, a prescindere dalla durata e dalla retribuzione prevista per la prestazione lavorativa, da accompagnarsi con una rinnovata politica di congedi parentali per incentivare la partecipazione femminile al mondo del lavoro”. Ciò comporterebbe “l’aumento conseguente del costo dei contratti precari, che a regime è persino auspicabile così da rendere meno conveniente il ricorso a queste tipologie contrattuali”.

 

Inoltre, “si può valutare l’introduzione di un equo compenso per tutte quelle professioni non coperte da contrattazione collettiva, affiancato dalla possibilità di concertare con i sindacati, i cui sistemi di rappresentanza necessitano evidentemente di un ammodernamento, la possibilità di definire la retribuzione minima per professionalità omogenee, non su scala nazionale, ma su base territoriale”.

 

Ma tutto ciò non basta. Per questo la sinistra anti-renziana del Pd ritiene che “nessuna delle soluzioni discusse ha senso senza una strategia che si ponga il quesito di come creare lavoro. Un interrogativo a cui il job act deve dare risposta” con “un robusto piano per la crescita e l’innovazione, che… indichi chiaramente le vocazioni economiche e industriali da perseguire” e che si traduca in un massiccio piano di investimenti pubblici, il cui ricorso è ritenuto quanto mai indispensabile.

 

Per far questo occorrono, però, tante risorse. Da qui il piano non proprio originale dei “giovani” ma vecchi turchi, fondato anche in questo caso con il ribaltamento delle politiche e dell'equazione rigore=risanamento “che non hanno funzionato (e non funzioneranno)”, con l’obiettivo di “archiviare la sequenza risanamento-crescita-occupazione e sostituirla con la più efficace occupazione-crescita-risanamento”. In che modo? Utilizzando la leva fiscale, facendo pagare di più a chi ha di più, oppure, "rimanendo dentro il vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/pil e recuperare qualche decimale rispetto al 2,5% previsto per il 2014”. Così facendo si libererebbero – dicono - “miliardi utili a produrre un vero shock occupazionale, che avrebbe il non trascurabile effetto di agire sulla crescita e di conseguenza di dare un contributo ben più efficace delle politiche di austerità alla riduzione del debito pubblico”.

 

Come è ovvio, in proposito la sinistra del Pd non accenna minimante alla spesa pubblica: totem dei totem, frutto di decenni di conquiste “sociali”, che non va violato. Allo stesso modo viene trascurato, in linea, a dire il vero, con quanto non propone l’intero panorama politico italiano, un altro aspetto: la competitività e come raggiungerla.

 

È giusto dire che per creare lavoro non basta un piano lavoro e bisogna agire anche dal lato della domanda, mettendo in condizioni le imprese di assumere perché ne hanno bisogno. Ma per averne bisogno è necessario essere competitivi sul mercato con prezzi concorrenziali. In merito, la riduzione del cuneo fiscale, quale che sia la sua entità, non è sufficiente. I prezzi infatti non scendono se non c’è concorrenza e libero mercato. E il problemone sta nel fatto che questi ultimi due termini in Italia suonano ancora come bestemmia e per questo, al di là della vuota retorica, sistematicamente ignorati.

 

 


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