di Erika Forieri (avvocato)
Si è sviluppata durante la quarantena una silenziosa epidemia la cui vittima è la risposta di giustizia che il cittadino chiede alle Istituzioni.
Il “paziente zero” è stato il decreto che ha sospeso i termini di tutti i procedimenti e inibito l’inizio di azioni giudiziarie, nel tentativo di diminuire l’afflusso di persone presso i Tribunali: subito si osserva che già da tempo l’avvento del processo telematico almeno per il settore civile aveva grandemente ridotto gli accessi agli Uffici.
Tale provvedimento ha gettato nel caos operatori ed interpreti, per la complicata modalità redazionale utilizzata nel tipizzare quali procedimenti sospendere, quali no, quali forse: dovendo rappresentare il testo con un richiamo artistico si potrebbe ben utilizzare un labirinto di Escher!
La sospensione disposta, poi procrastinata, poi infine mellifluamente camuffata dalla possibilità di svolgere udienze da remoto, si è tramutata, nella pratica, in un impedimento allo svolgimento di processi già avviati o all’esercizio di azioni di tutela, di fatto bloccate.
È stata rimessa al singolo Ufficio Giudiziario o addirittura al singolo magistrato la responsabilità di scelta di trattare o meno il processo, ed in che modo, sino ad imporre addirittura al legale con la “dichiarazione d’urgenza”, anche questa per nulla disciplinata, la nuova responsabilità di pretendere la trattazione di una causa.
Sia chiaro: nel momento in cui il cittadino bussa alle porte della Giustizia, l’urgenza è in re ipsa perché significa che tutte le strade alternative esplorate per risolvere una questione hanno già fallito! Tra le maglie della decretazione d’urgenza si è realizzata una modifica silente ai codici di procedura.
Ad oggi in Italia esistono tre tipologie di trattazione del processo civile: in presenza (rarissima, residuale ed ultima ratio), orale da remoto (guardata con diffidenza e timore) e scritta (di fatto la più utilizzata).
La scelta dell’una o dell’altra non risponde però a criteri di necessità, o di “materia” stabilite a monte, criteri che avrebbero consentito una sorta di uguaglianza nell’emergenza, ma a localismi organizzativi.
Chiaro che gli Uffici Giudiziari nel loro complesso, colpiti nel loro centro nevralgico quale è appunto la celebrazione del processo, hanno dato vita ad interpretazioni locali della normativa nazionale, con la conseguente moltiplicazione di protocolli applicativi diversi da Tribunale a Tribunale anche appartenenti alla stessa Regione !
La propagazione di protocolli applicativi è stata virale.
Vi sono Uffici Giudiziari che si sono limitati ad applicare le indicazioni del Governo ed altri che hanno puntualmente disciplinato le diverse modalità di trattazione dell’udienza, scritta o in videoconferenza, elencando una serie di prescrizioni operative che deviano l’attenzione dal merito della vicenda a tecnicismi che nulla hanno a che fare con il processo.
Oggi assistiamo ad una molteplicità di prassi operative declinate sulle linee governative che nel tentativo di regolamentare una fase emergenziale e per sua natura quindi destinata a cessare, ha aperto il varco a modifiche strutturali ai codici di procedura civile e penale, stante la discrezionalità lasciata alle parti nel proseguire l’utilizzo di modalità alternative all’Udienza tipica anche dopo la fine dell’emergenza.
Si è concretizzata una enorme violazione del principio di uguaglianza proprio nei luoghi ove questa viene ricercata e pretesa: ma la legge non doveva essere uguale per tutti??
Il cittadino ora, a seconda di ove sia collocato geograficamente il centro dei suoi interessi, riceve trattazione diversa a situazioni uguali!
Non si comprendono le ragioni in forza delle quali il medesimo diritto debba essere celebrato in udienza se in contestazione nel nordest ovvero “mediante note scritte” se in contestazione nel nordovest (la geolocalizzazione è puramente indicativa…).
E neppure si comprende il fondamento del perché l’Avvocato che esercita il suo mandato in diverse zone geografiche della Repubblica debba camaleonticamente adeguare la “forma” della difesa a seconda che essa si esplichi in uno dei quattro punti cardinali del Paese, rincorrendo prassi a malapena pubblicate sui siti del singolo Tribunale.
Inoltre si lascia sostanzialmente alle parti la scelta della modalità di trattazione, con conseguente allungamento del momento di celebrazione del processo posto che potrebbe non esservi l’accordo per l’una o per l’altra ed il Giudice si troverà a dirimere anche la querelle relativa al “come” si tratterà il processo.
La diversa modalità di trattazione di un processo, da remoto, in presenza o scritto, porta poi inevitabilmente con sé un esito potenzialmente diverso per le connotazioni che le tre diverse modalità conferiscono alla dialettica delle parti.
La risposta di Giustizia al cittadino deve essere la medesima ovunque la richiesta venga svolta.
I localismi delle prassi applicative lasciano spazio a pericolosi opportunismi, posto che si potrebbe verificare la scelta di un Foro piuttosto che di un altro, in conformità alla modalità di trattazione di una medesima questione.
Si è dimenticato che il diritto qualsiasi esso sia merita il medesimo trattamento e la stessa risposta di giustizia a prescindere dalla localizzazione geografica in cui esso richiede tutela.
Le prassi operative non possono modificare i Codici e frantumare l’unicità dei riti avallando l’incertezza nella risposta di Giustizia!
Diversamente si torna al feudalesimo delle procedure ed al medioevo del diritto.
Vi sono sicuramente alcuni ambiti e alcune tipologie di udienze che, è opinione di tutti i frequentatori per ragioni di mandato delle aule giudiziarie, ben possono essere sostituite dall’invio di note scritte, ma l’individuazione di quali esse siano deve essere unitaria proprio per garantire uniformità alla tutela dei diritti.
La “celebrazione dell’udienza” ed il termine celebrare che viene usato dai commentatori nei testi rende l’idea della solennità del momento, è il momento clou del processo, il momento in cui il giudice incontra le parti ed i difensori.
È in udienza che attraverso il confronto e la reciproca dialettica tra le parti si esplica il principio del contraddittorio e prende forma la tutela che verrà riversata nel provvedimento del Giudice.
Ben venga lo sfoltimento della procedura da rituali ormai anacronistici, ma lo si faccia con ponderazione e non trainati dall’innamoramento dilagante ed effimero per la tecnologia, ove tutto è sostituibile, perché così non è.
Lo sguardo di un Giudice, il tremore di un testimone, l’imbarazzo di una parte vissuti in presenza sono indicatori che non possono essere mediati da uno schermo e da una videocamera o da fredde “note d’udienza”.
Entrare in un’aula di giustizia deve ancora poter dare al cittadino la sensazione di un intero apparato dello Stato che in quel momento sta ascoltando le sue istanze e sta dando risposte.
Laddove tutto ciò si appresti ad esser perduto, per lasciare il passo a riduttive “videochiamate” o concise note scritte, significherebbe sminuire la sacralità del rito della Giustizia e riportarla ad una arretrata forma di governo feudale “tutta imperfetta nelle sue parti, erronea nei principii e disordinata nei mezzi” (Alfonso Giovanni Andrea Longo, 1738-1804).
(foto da Quotidiano Giuridico)
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