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18/11/24 ore

Niente rito abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo. Processi più lenti e nuova vittoria del “populismo giustizialista”?


  • Fabio Viglione

Una sorta di “populismo giustizialista” si sta affermando in modo sempre più pervasivo. È alimentato forse da un sentimento di paura, di rabbia e di insicurezza che tende a privilegiare reazioni emotive. Certamente di massima semplificazione priva, a tacer d’altro, di uno sguardo d’insieme.

 

L’allarme sociale che scaturisce dalla cronaca di un singolo caso, amplificata e proiettata a dismisura. Facili demagogie si alimentano, spesso favorite da analisi sommarie dei singoli eventi, senza trovare adeguato temperamento emozionale nel ricorso a solidi principi di uno Stato liberale.

 

Principi certamente meno veicolabili attraverso gli slogan. Questo fenomeno sta trovando risposte feconde, a mio parere, anche nelle ultime riforme in materia di giustizia penale. Ne deriva la vocazione ad eleggere il sistema penale quale luogo salvifico di massima repressione per ogni fenomeno degno di esecrazione.

 

Una repressione che, per mostrarsi efficace, si nutre del sostanziale svuotamento delle garanzie per l’accusato. Le garanzie vissute quasi come un fastidio e l’inasprimento sanzionatorio come necessaria medicina. Così si finisce per vivere la prescrizione come un generoso regalo per i colpevoli, e le pene alternative al carcere come un immotivato perdonismo.

 

In questo contesto, la repressione e la ricerca delle forme più rigide di attuazione si atteggiano a modello unico. E tanto, lasciando da parte un fecondo piano di prevenzione quale campo sul quale seminare, e spendere, le migliori energie.       

 

Ma perché sta accadendo? Credo che, al netto di tante altre concause, di numerosi fattori che hanno contribuito a generare questo quadro, si siano dissolti da tempo due principi fondanti dello Stato di Diritto, costruito da secoli di evoluzione giuridica nel nostro Paese.

 

A quali principi faccio riferimento? Alla “presunzione di non colpevolezza”, abusato a parole ma non realmente praticato ed a quello di “rieducazione della pena”, nella sua declinazione più moderna quale effettiva “risocializzazione”. Entrambi scolpiti nella Costituzione, entrambi, ormai, diventati come i vecchi oggetti d’arredamento mandati in soffitta. Non mi stancherò mai di sottolineare come le recenti riforme che hanno riguardato la sostanziale abrogazione della prescrizione e l’obbligo del carcere per alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione, rappresentino due iniziative non certo ispirate ai richiamati principi.

 

Se poi penso alla possibilità, determinata dal nuovo assetto di riforma, finanche di applicare retroattivamente l’ostatività delle pene alternative per alcuni reati, aumenta il mio disagio. Mi chiedo, provocatoriamente, se non sia il caso di promuovere una riforma costituzionale per affermare la “presunzione di colpevolezza” con il semplice avviso di garanzia e la funzione “meramente afflittiva” della pena, lontana il più possibile da ogni forma di risocializzazione del condannato.

 

Ad ogni modo, lasciando da parte la provocazione, continuo a non concordare (è semplicemente il mio pensiero) neanche con l’ultima riforma, in ordine di tempo, in materia di processo penale. Mi riferisco all’abolizione del giudizio abbreviato per i delitti puniti, astrattamente, con la pena dell’ergastolo. Inutile dire che la riforma è stata veicolata al grido di: “niente sconti per gli assassini!”.

 

Un grido che si diffonde e sembra contagiare ogni dibattito che non può concludersi se non con un corale auspicio a pene esemplari e sempre maggiore rigore. Sconti di pena che, determinati dalla scelta del rito abbreviato, avrebbero finito per apparire beffardi per le ragioni delle vittime dei reati e della credibilità del sistema.  Ma di quali sconti si trattava? E quali conseguenze la riforma comporterà? 

 

Partiamo dagli sconti. Con il giudizio abbreviato, che si celebra allo stato degli atti di indagine -  che ben può portare anche all’assoluzione! - in caso di condanna, la riduzione, ad oggi, può consentire di “beneficiare” della pena dell’ergastolo (senza isolamento diurno…) o, nel migliore dei casi, di trent’anni. Accedendo al rito abbreviato, la riduzione di un terzo per il condannato, può comportare o l’ergastolo (senza isolamento diurno, questo lo sconto) o trent’anni.

 

Questo il quadro attuale. Non credo che tali riduzioni possano ritenersi eccessivamente perdoniste e tali da doversi necessariamente eliminare. Anche perché il temperamento della pena non era frutto di un semplice cadeau. La riduzione venne concepita in relazione alla rinuncia dell’imputato ad una più articolata difesa nel contraddittorio dibattimentale.

 

Una rinuncia dagli innegabili effetti concreti anche in chiave di massima economia processuale. Con conseguente risparmio anche per i costi pubblici. La riforma ha invece eliminato questa opzione, questo ricorso ad un rito semplificato e più rapido per l’imputato quando l’accusa contesta delitti puniti con l’ergastolo.

 

Ma quali conseguenze comporterà la riforma? Per questi processi, non potendosi concludere rapidamente il primo grado di giudizio innanzi al Giudice dell’udienza preliminare, sarà necessario dar luogo al dibattimento. Con la conseguenza che quei processi si dovranno celebrare davanti alla Corte d’Assise, competente per i reati di omicidio volontario. 

 

Non, quindi, un “giudice unico” ma il più ampio e macchinoso Consesso. Si dovrà, dunque, nominare un Collegio con due magistrati togati e sei giudici popolari, oltre i membri supplenti. Proprio la formazione del Collegio, poi, comporta non poche difficoltà organizzative, connesse alla nomina dei componenti laici ed alle loro disponibilità. Poi, si darebbe inizio all’istruttoria, spesso molto complessa, con numerosi testimoni da esaminare e l’assunzione di tutte le prove in contraddittorio tra le parti. Anni di impegno delle Corti per la celebrazione del giudizio.

 

Insomma, un processo dispendioso sotto tutti i punti di vista e dai tempi notevolmente più lunghi. Il disagio dei tempi lunghi, poi, non credo possa non riguardare anche le vittime dei reati in nome delle quali, si legge, la riforma sarebbe stata concepita. Sembra una scelta poco ragionata.  Un maggiore ricorso ai riti alternativi, al contrario, anche a prescindere da questa tipologia di reati, rappresenta una prospettiva necessaria per la riduzione dei tempi e per l’efficienza del sistema.  

 

Nella situazione di criticità nella quale si trovano i carichi giudiziari nel nostro Paese, aumenteranno le difficoltà di dare risposte in tempi ragionevoli. Sarà questo il sicuro effetto della riforma. Non si tratta di previsioni allarmistiche, campate in aria. Numerosi sono i processi definiti con il giudizio abbreviato per delitti di quella natura. I dati forniti dal Ministero, pubblicati peraltro anche da qualificati organi di informazione, confermano la previsione. Nel 2016 i giudizi abbreviati celebratisi in relazione a procedimenti per delitti puniti con l’ergastolo sono stati il 68 % e nel 2017 addirittura il 79%. Dati non certo insignificanti.

 

Ed allora mi chiedo: era proprio una riforma di cui avevamo bisogno per migliorare la qualità del servizio giustizia? Io dico proprio di no. Da una parte perché credo che rincorrere l’unico obiettivo del “fine pena mai” sia un evidente arretramento in chiave di funzione della pena, concepita in ottica meramente retributiva.

 

Dall’altra perché ritengo che la norma, peraltro di dubbia costituzionalità, appesantirà l’ingranaggio e determinerà criticità pratiche con l’inevitabile effetto di dilatare i tempi dei processi. Ma, forse, qualcuno potrà esclamare  soddisfatto: “Niente sconti di pena!”. Ancora una vittoria per il “populismo giustizialista”?

 

    


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