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16/11/24 ore

Fabio Viglione: Carcere, non sia la sola pena



Quello che segue è il testo scritto di una conversazione con la redazione di A.R. rivista dall’autore

 

                                                                    ************

 

di Fabio Viglione

 

Devo ringraziare Agenzia Radicale, per queste frequenti e stimolanti occasioni di confronto, anche fra differenti approcci, che incoraggia a riflettere su questioni che sono centrali per il nostro ordinamento penale e per il sistema sanzionatorio. Dalle sentenze di condanna molto lontane dalla commissione del fatto alla certezza della sanzione e alla funzione stessa della pena. Per finire al rapporto tra la pena e il condannato e al coinvolgimento della collettività.

 

Si tratta di problemi storici, problemi vecchi ma sempre nuovi nel senso che attendono ancora di essere affrontati in modo completo e, per quanto possibile, risolti. Parliamo di vicende che riguardano il quotidiano, vengono da lontano e, credo, non finiranno mai di essere al centro dei dibattiti.

 

Quando si parla di sentenze e di esecuzione, nel rispetto assoluto che le sentenze devono avere e devono trovare nella coscienza individuale e collettiva in uno Stato di diritto, non va dimenticato che esistono anche gli errori giudiziari.

  

Ciò naturalmente non significa affatto che le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali non debbano essere sempre rigorosamente rispettate. Il processo deve accertare la verità e si sforza di farlo attraverso i soggetti istituzionali chiamati a operare in tal senso, ma talvolta tra la verità giudiziaria e quella naturalistica, quella reale, può determinarsi una scollatura.

 

Un fatto nella sua dimensione effettiva, naturalistica appunto, può essere andato in modo assolutamente diverso da come la sentenza lo ricostruisce. E tanto, anche a fronte del massimo impegno, del massimo rigore e della elevata professionalità dei soggetti chiamati a ricostruirlo e a valutare le prove raccolte. La letteratura degli errori giudiziari è particolarmente interessante perché ci offre in ogni epoca esempi di questo tipo, legati, inevitabilmente, anche alla natura dell’uomo, alla sua fallibilità e alla impossibilità di sovrapporre sempre in modo perfetto le due realtà.

 

Che dire dei processi agli untori nella Milano seicentesca e delle condanne esemplari irrogate ai presunti responsabili del propagarsi della peste? La peste non venne certo diffusa per mano di volontarie azioni di spargimento batterico eppure in tanti furono processati e condannati guadagnando l’infamante “patente” di untori. Spesso finanche dopo aver confessato la commissione di ignobili atrocità, attingendo dalla fantasia.

 

Le vicende degli sventurati Mora e Piazza, di manzoniana memoria, ne rappresentano un monumentale esempio.

 

Ma l’errore giudiziario può materializzarsi in ogni tempo. Clamoroso il caso di un cittadino siciliano, a metà degli anni cinquanta, che stimolò una modifica normativa dell’istituto della revisione delle sentenze di condanna. L’imputato venne condannato all’ergastolo per omicidio e occultamento di cadavere. La sentenza passò in giudicato e il condannato cominciò a scontare la pena in carcere. Poi, dopo diversi anni, improvvisamente, sulla scena comparve la vittima…che non era morta...

 

Vi era stata sì un’aggressione, ma senza conseguenze mortali e la vittima aveva deciso di scomparire per un po’. Quel caso consentì al legislatore di prevedere e disciplinare specificamente l’ipotesi della scoperta di nuove prove successive alla sentenza di condanna, per ribaltare una condanna ingiusta. Una revisione per la scoperta di prove nuove che da sole o unitamente al materiale già raccolto, sono in grado di ribaltare il giudizio di condanna.

 

Perché ho voluto citare questo caso di oltre sessant’anni fa? Perché è ben possibile che, talvolta, la verità giudiziaria possa non essere sovrapponibile a quella della realtà fenomenica e il caso dell’omicidio con la vittima in vita assurge a paradigma di tale evenienza.

 

D’altronde se è previsto nel nostro codice l’istituto della revisione, è proprio per consentire, in ogni tempo, di correggere le condanne ingiuste. Tuttavia, a prescindere dalla possibilità di errore, la sentenza di condanna dà vita ad un percorso che non sembra interessare molto i dibattiti più accesi e partecipati in tema di  giustizia. Tutto sembra finire con l’ultimo “verdetto” giudiziario e l’apertura di un cancello metallico che si richiude rumoroso.

 

Ma è proprio da quel momento, in cui tutto sembra completato, che occorre, sotto altri profili, essere molto attenti a quanto accade.  

 

No, non è tutto finito, credo sia necessario pensare alla funzione sanzionatoria, alla funzione della pena, al rispetto di quei diritti costituzionali che interpretano la pena come finalizzata al recupero del condannato. A me piace parlare di risocializzazione come modernizzazione del concetto di rieducazione. 

 

In questo senso, già autorevoli interventi della Corte Costituzionale oltre che delle Corti europee hanno evidenziato la necessità di consentire spazi vitali decorosi, dignitosi, umani al detenuto, affrontando con decisione il tema del sovraffollamento.    

 

Qualche tempo fa, ho partecipato ad un interessante convegno organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma dal titolo “La criticità del sistema carcere e l’individualizzazione dell’esecuzione della pena”. Ritengo che il titolo contenesse il nous anassagoreo della scottante materia del sistema sanzionatorio e della sua effettività.

 

In primo luogo, credo che, tanto la previsione di proposte quanto la verifica dei risultati prodotti dal sistema, siano condizionate da un approccio culturale. Nel senso di sensibilità e di linguaggio. Credo che il sistema del carcere generalizzato per tutti i tipi di reato, sia un sistema certamente vecchio ed obiettivamente superato. Questo anche a prescindere dal tema del sovraffollamento e delle condizioni dei detenuti all’interno delle strutture.

 

L’adozione del carcere come unico modello di riferimento finisce per dare scarso rilievo alle cosiddette pene alternative che, ad alcuni, appaiono un perdonismo inaccettabile e in contrasto con la certezza della pena. Ma, a ben vedere, sono l’esatto opposto. O almeno dovrebbero esserlo. Si tratta di risposte effettive ma molto più in linea con la funzione risocializzante della pena.

 

D’altronde, se il carcere diventa una risposta generalizzata, dobbiamo poi scontrarci con quello che è in concreto il sistema al suo interno, con quelle che sono le sue prospettive effettive in termini di deficit di prospettive di reale risocializzazione.

 

Per moltissime delle pene da espiare, quando si chiude la porta del carcere, il cittadino condannato sconterà la pena e poi dovrà tornare in società con un percorso che dovrà essere il più possibile fecondo per stimolare le sue migliori energie finalizzate a vivere una vita nel rispetto delle regole.

 


 

Una vita possibilmente diversa da quella in cui ebbe a violare il patto sociale. Credo che questo debba essere un obiettivo da perseguire se non si vuole dare alla pena una funzione inutilmente retributiva e completamente improduttiva.   

 

Se la pena fosse vissuta come una più dinamica riparazione dello “strappo” con l’inizio di un percorso realmente risocializzante, lo statico modello carcerario per la gran parte dei reati potrebbe e dovrebbe essere messo da parte.

 

Peraltro, una pena meno statica e alternativa al carcere reca con sé un sostanzioso affievolimento del rischio di recidiva. In questo senso proprio i dati sulla recidiva ci confortano mettendoci in guardia sul maggior tasso per chi ha scontato la pena in regime carcerario rispetto a chi è stato sottoposto alle cosiddette pene alternative.

 

Sono dati che non possono sorprenderci e che ci invitano a pensare sempre più ad una  pena maggiormente legata a quelli che sono gli obiettivi da perseguire nell’ottica del reinserimento. Sempre, ripeto, guardando all’unico modello carcere come inefficace e dannoso se esteso a ogni tipologia di reato e di condannato. In questo ambito non possiamo non chiederci: come si fa a pensare a un recupero effettivo, così come previsto dalla Costituzione, se c’è dal punto di vista degli affetti un sostanziale “congelamento”.

 

Proprio dal punto di vista degli affetti in relazione alla condizione dei detenuti, l’Italia è indietro.  In molti altri Paesi europei, esistono strutture nelle quali le affettività vengono stimolate ed è possibile viverle per il detenuto in modo più spontaneo ed effettivo.  

 

Il detenuto è messo nelle condizioni di uscire dal proprio disagio e dal proprio isolamento e di condividere con le persone care momenti di intimità. Passa anche da quei momenti la voglia di riscatto e la condivisione con chi resta fuori ad attenderlo amorevolmente un percorso di recupero. Se quel mondo resta fuori vengono anestetizzati troppo preziosi supporti emotivi. E a proposito di affettività, mi chiedo: esiste o no un diritto in tal senso che appartiene al detenuto in quanto essere umano ? 

 

È un tema aperto. Diritto o concessione premiale ?

 

Su questo aspetto, quello della affettività del condannato, credo si possano fare passi avanti. Difatti, per consentire al condannato di elaborare al meglio il proprio errore ed avere piena consapevolezza dello stesso, si deve puntare a non disperdere le positive energie emotive che possono essere stimolate proprio dalle relazioni affettive.

 

Se nella espiazione della pena carceraria continueranno a resistere queste forme di congelamento e isolamento delle affettività, il condannato finirà per sentirsi vittima di un sistema iniquo, ingiusto ed a non sentirsi in debito con la comunità.

 

Al netto, poi, del ribaltamento condizionante che il carcere produce in termini di valori e di selezione: chi è dotato di maggiore spessore criminale finisce per fagocitare anche il detenuto resosi responsabile di reati minori ed alla prima esperienza da recluso. Ed è proprio per questo che come modello unico e massificato per ogni reato il carcere va superato non per un atteggiamento di perdonismo fine a se stesso.

 

Credo che in un percorso evolutivo della sanzione penale, la pena detentiva debba essere utilizzata per i reati di particolare allarme sociale, per i reati che mettono in pericolo la sicurezza dello Stato, per quelli commessi da organizzazioni criminali che tendono a sostituirsi allo Stato e soffocano la libertà dei cittadini nelle comunità. Ma in ogni caso, quando non vi è grave e concreto pericolo per la sicurezza, va prevista sempre una forma alternativa alla detenzione che, pur conservando una necessaria afflittività non perda la vocazione riabilitativa e risocializzante. Anche dal punto di vista dei costi, poi, l’eccessivo ricorso alla pena carceraria determina spese altissime per lo Stato: il carcere non è neanche una pena “a buon mercato”!

 

E quando si parla di carcere e Costituzione, non posso che pensare anche al cosiddetto ergastolo ostativo. A tal proposito ritengo interessante il dibattito proprio sulla possibilità di prevedere ergastoli privi di qualunque prospettiva e beneficio, anche a prescindere dalla condotta del detenuto.

 

Mi chiedo: l’ergastolo ostativo non rischia di far perdere la speranza, che non è propria soltanto del cittadino libero ma dovrebbe appartenere all’Uomo in quanto tale? La speranza unica fonte per valorizzare al meglio il quotidiano. In questo senso, il discorso diventa complesso e coinvolge il singolo patrimonio politico culturale di riferimento.

 

Devo ammettere che quando penso ad un individuo detenuto tendo a far prevalere, nelle analisi, il sostantivo sull’aggettivo. Così, inevitabilmente, il rispetto dei diritti e della dignità dell’Uomo in quanto tale, non può che rivelarsi centrale, a prescindere dallo stato di detenzione.

 

Mi rendo conto che si tratta anche di temi impopolari da trattare perché è certamente più facile far ricorso ad una svalutazione dei diritti quando si parla di soggetti che hanno commesso reati, talvolta particolarmente gravi, e stanno scontando la pena.

 

Tuttavia, ritengo che non si possa mai perdere di vista un concetto di fondo: le garanzie costituzionali sono un patrimonio prezioso per tutti e non si esauriscono in meri formalismi dovendo rispondere nella sostanza, ai propri contenuti.

 

Mi piace pensare, poi, che ci sia sempre e per tutti gli uomini, un diritto alla speranza. La Speranza che per Sant’Agostino era madre di due bellissimi figli: lo sdegno per la realtà delle cose e il coraggio per cambiarle.

 

 

 


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