La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha da poco emesso una 'sentenza nel caso Y e Z contro Germania' (cause riunite C-71/11 e C-99/11), avente ad oggetto l’interpretazione della Direttiva Qualifiche e, in particolare, degli articoli 2, lett. c) e 9, par. 1, lett. a) in materia di persecuzione per ragioni legate alla libertà di religione.
Si tratta di domande pregiudiziali inviate dalla Corte amministrativa federale tedesca alla Corte di Giustizia UE, affinché questa fornisca la propria interpretazione al riguardo e soprattutto definisca quali siano gli atti che possono costituire persecuzione in occasione di una violazione grave della libertà di religione.
Il caso è scoppiato a seguito della richiesta, da parte di due cittadini pakistani, del riconoscimento dello status di rifugiato. I due uomini sono membri attivi della comunità Ahmadiyya, movimento riformista dell’Islam osteggiato da tempo dai musulmani sunniti maggioritari in Pakistan, le cui attività religiose sono severamente limitate dal codice penale pakistano.
Questi individui non possono, pertanto, professare la loro fede pubblicamente senza rischiare che tali pratiche siano giudicate blasfeme, capo d’imputazione punibile, secondo le disposizioni di detto codice, con pena detentiva o pena di morte. Le domande di asilo sono state dapprima respinte, nel 2004; quindi, in fase di ricorso, le domande sono state accolte con due sentenze del novembre 2008.
Contro queste ultime decisioni è stato avanzato ricorso per cassazione ed infine la Corte amministrativa federale tedesca ha sottoposto tre questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia UE. Il giudice tedesco aveva fatto riferimento all’art.9 della CEDU, mentre la Corte parla dell’art. 10 della Carta (la Carta dei diritti fondamentali dell’UE), che "corrisponde al diritto garantito dall’art. 9 della CEDU".
La Corte amministrativa federale tedesca ha voluto così trovare risposta alla domanda: “Quando la violazione della libertà di religione è un atto di persecuzione?”, per comprendere perciò le norme minime sull’attribuzione, a cittadini terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona bisognosa di protezione internazionale.
L’UE ha chiarito per prima cosa il significato del termine “rifugiato”, che si applica a chiunque "temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure [a chiunque], non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra".
La Corte ha rilevato, poi, che gli atti idonei a costituire una violazione grave comprendono atti gravi che colpiscono la libertà dell'interessato non solo di praticare il proprio credo privatamente, ma anche di viverlo pubblicamente.
Pertanto, non è il carattere, pubblico o privato, oppure collettivo o individuale, della manifestazione e della pratica religiosa, bensì la gravità delle misure e delle sanzioni adottate o che potrebbero essere adottate nei confronti dell'interessato che determinerà se una violazione del diritto alla libertà di religione debba essere considerata una persecuzione: “Una violazione del diritto alla libertà di religione può costituire una persecuzione qualora il richiedente asilo, a causa dell'esercizio di tale libertà nel suo paese d'origine, corra un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di un soggetto autore della persecuzione".
La Corte ha sottolineato inotre che, "qualora la partecipazione a cerimonie pubbliche di culto, singolarmente o in comunità, possa comportare la concretizzazione di siffatte lesioni, la violazione del diritto alla libertà di religione può configurarsi come sufficientemente grave”.
Infine la Corte ha avuto premura di sottolineare un’importante questione seconda la quale “da nessuna parte risulta che si debba prendere in considerazione la possibilità che il richiedente possa evitare la persecuzione rinunciando alla pratica religiosa che potrebbe metterlo in pericolo (par. 78);pertanto, la Corte ritiene che tale possibilità non sia ,in linea di principio, pertinente”.
La Corte di Giustizia UE ha così chiarito la questione sottolineando che il timore del richiedente di essere perseguitato è fondato quando le autorità competenti, alla luce della situazione personale del richiedente, considerano ragionevole ritenere che, al suo ritorno nel paese d’origine, egli compirà atti religiosi che lo esporranno ad un rischio effettivo di persecuzione.
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