Meriam Yehya Ibrahim è un giovane medico del Sudan, ha 27 anni, è incinta di otto mesi. Ed è stata condannata a morte da un tribunale di Khartum per apostasia dopo la denuncia di alcuni parenti. La donna, nata da madre etiope ortodossa e padre musulmano, ha infatti sposato un cristiano del Sud Sudan, Daniel Wani, da cui ha avuto un figlio, ora di quasi due anni, che dallo scorso febbraio si trova in cella con lei.
Meriam, pur essendo cresciuta come cristiana dalla mamma dopo che il padre è andato via di casa quando lei aveva appena 6 anni, essendo figlia di un musulmano è a tutti gli effetti considerata dal governo della stessa religione. “Sono sempre stata cresciuta come cristiana” ha cercato di difendersi la donna durante il processo; ma il giudice non ha sentito ragioni: “Ti abbiamo dato tre giorni di tempo per rinunciare, ma insisti nel non voler ritornare all’islam”ha spiegato, condannandola all’impiccagione per aver rinnegato la propria fede e a 100 frustate per ‘adulterio’, dal momento che per la legge sudanese il matrimonio di una musulmana con un non musulmano non è valido.
La giovane si trova ora in carcere con il primo figlio, di cui il marito non può occuparsi a causa dello status di adultera della moglie, ma il suo caso è oramai diventato internazionale: mentre la foto del giorno delle sue nozze fa il giro del mondo, decine di associazioni stanno lanciano sul web petizioni per fermare il boia e annullare una condanna palesemente assurda. Le autorità giudiziarie sudanesi, intanto, vista probabilmente la mobilitazione mondiale, hanno dichiarato che la donna verrà giustiziata almeno due anni dopo aver partorito, per consentirle di allattare il suo bambino.
Ma secondo il legale di donna, Al-Shareef Ali al-Shareef Mohammed, ci sono tutti i presupposti per presentare ricorso contro la sentenza: “Il giudice ha oltrepassato il proprio mandato quando ha deciso che il matrimonio di Meriam non è valido perché sua marito appartiene alla sua religione – ha sottolineato l’avvocato – perchè pensava più alla legge islamica, alla sharia, che non alle leggi e alla Costituzione del Paese”, ignorandone i principi di libertà di religione e di uguaglianza tra i cittadini previsti dalla Carta.
Il Sudan ha reintrodotto la sharia nel 1983 ma il presidente Omar Bashir, al potere dal 1989, dopo la secessione dal Sud non musulmano nel 2011, aveva dichiarato che la legge islamica sarebbe stata applicata più rigidamente. Ciò nonostante finora nessuno era stato condannato al carcere o alla pena di morte perché tutti, messi alla sbarra, hanno rinnegato la propria fede: quello di Meriam è il primo caso.
“Chiediamo al governo del Sudan di rispettare il diritto di libertà di religione, compreso il diritto di ciascuno di cambiare la propria fede o le proprie credenze, un diritto che è sancito dal diritto internazionale e dalla stessa Costituzione ad interim sudanese del 2005”hanno dichiarato in un comunicato le rappresentanze di Usa, Gran Bretagna, Canada e Olanda, mentre Amnesty International ha chiesto il rilascio “immediato e incondizionato” di Meriam.
Pure l’Italia, promette invece il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, unendosi alla campagna del quotidiano Avvenire su twitter (#meriamdevevivere), “farà sentire la sua voce anche nelle sedi diplomatiche”. (F.U.)
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