Il governo cinese inasprisce le pene, già particolarmente severe, per i casi di affermazioni ritenute particolarmente diffamatorie in rete. Lunedì 9 settembre, la più alta Corte cinese ha stabilito nuove misure detentive, che comprendono l’arresto fino a tre anni per l’autore di un tweet o di un messaggio postato on line che viene condiviso più di 500 volte e/o letto più di 5000.
Il fatto appare paradossale perché "una persona non viene punita per quello che fa, ma per quello che gli altri fanno con il suo post", come ha scritto un utente in un commento, ripreso anche dalla stampa di Hong Kong, che si conclude con un “Benvenuti nel Medioevo”
Bill Bishop, studioso della cultura cinese e collaboratore di un blog del New York Times, ha però spiegato come la diffusione dei microblogging è stata sfruttata in Cina anche da alcune aziende per fini illegali, vendendo cioè sotto adeguato pagamento servizi atti a screditare l’immagine di figure politiche o imprenditoriali con falsi messaggi.
In questo senso, la normativa colpisce il fenomeno della corruzione, molto diffusa nel Paese del Sol Levante, ma allo stesso tempo limita ulteriormente la libertà di espressione dei microblogger e di chiunque voglia sentirsi libero di esprimere un’opinione in qualunque campo della vita attiva cinese: sempre con la paura di finire in carcere “soltanto” per un commento magari gradito dagli internauti, ma non dal vertice delle istituzioni.
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