Il 13 marzo 2013 una trentunenne si è immolata come atto di protesta contro Pechino. Ma per la Corte popolare cinese di Ngaba, è stato il marito, lo scrittore tibetano Dolma Kyab, a strangolarla e a darle fuoco per “problemi legati all'uso di alcolici”: per questo motivo l'uomo andrà incontro alla pena capitale.
Secondo il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia, infatti, non sono pochi i tentativi cinesi di corrompere le famiglie di chi si immola, inducendole a mentire in cambio di denaro sulle reali cause della morte dei loro parenti.
Allo scrittore – perseguitato, arrestato e condannato già nel 2005 a 10 anni di carcere in base agli articoli 100 e 11 del Codice penale cinese – era stato imposto di dichiarare che la moglie si era uccisa per motivi familiari. Ma Dolma Kyab h a rifiutato.
“Apprendo con dolore la notizia della condanna a morte del tibetano Dolma Kyav – ha scritto in un comunicato la ministra degli Esteri Emma Bonino – Ho espresso più volte la convinzione che il cammino verso il pieno rispetto dei diritti umani può avere tempi diversi in contesti sociali diversi, ma non vi possono essere dubbi sul valore assoluto della salvaguardia della vita umana”.
La titolare della Farnesina ha dunque fatto appello alle autorità cinesi affinchè venga sospesa l'esecuzione, “tenendo conto della tendenza oramai irreversibile verso l'abolizione della pena di morte nel mondo anche alla luce dell'approvazione, da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, della Risoluzione per la moratoria universale sottoscritta da oltre 100 Paesi”.
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