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23/12/24 ore

Guantanamo, nel limbo dei 'senza colpa' in sciopero della fame


  • Florence Ursino

“Prima viene lo stomaco poi viene la morale”, scriveva Brecht. Ma c'è un momento in cui fame ed etica si incontrano, nutrendosi di rabbia, golose di giustizia. Dodici anni dopo Ground Zero, dodici anni dopo quell'undici settembre che cambiò sorti, confini e schieramenti sulla grande scacchiera della politica mondiale, 166 persone sono ancora detenute senza una formale accusa o alcun processo in vista nella baia di Guantanamo, a Cuba.

 

Qui, nel carcere speciale dove l'allora presidente Usa Bush fece rinchiudere ogni persona sospettata di terrorismo, sono oramai 100 i prigionieri in sciopero della fame per protestare contro le condizioni disumane della struttura in cui sono condannati a sopravvivere in assenza di specifiche incriminazioni.

 

Non rischiano la vita, ha spiegato in una nota il colonnello Samuel House, portavoce del penitenziario, ma 20 dei 100 detenuti sono alimentati con tubi collegati direttamente allo stomaco dal setto nasale, e cinque di loro sono ancora ricoverati in ospedale.

 

“Sono in sciopero della fame dal 10 febbraio e non mangerò finché non riavrò indietro la mia dignità”, scrive il 14 aprile sulle colonne del New York Times Samir Naji al Hasan Moqbel, uno yemenita da oltre un decennio dietro le sbarre senza essere accusato di nulla. Qualche giorno dopo l'Independent dà voce a un'altra storia; è quella di Shaker Aamer, rinchiuso a Guantanamo dal 2002, dichiarato non colpevole e dal 2007 in attesa di essere scarcerato: anche la sua bocca decide di serrarsi.

 

Come un virus, la protesta infine dilaga: le 'tute arancioni' denunciano col digiuno i trattamenti inumani, il controllo oppressivo, la confisca dei loro effetti personali, incluse le copie del Corano. Morire di fame per evadere dal limbo detentivo in cui una Corte fantasma li ha scaraventati, complice una indifferente giuria internazionale e le promesse mancate di chi, varcando la soglia della Casa Bianca, aveva parlato di giusti processi, libertà per gli innocenti e chiusura definitiva di quella che, come scrive il NYT, “è essenzialmente una prigione politica”.

 

E' giunto il momento per Obama di fare i conti con quell'impegno preso, con quei diritti fondamentali violati, con quegli uomini ignorati, guerrieri fantasmi in carne, ossa e fame di una lotta che sa di allodole, di Irlanda, di quel Bobby morto di inedia tra le mura di una prigione chiamata Maze. O Guantanamo, forse.


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