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02/05/24 ore

Tibet, le fiamme sui corpi contro il "genocidio"


  • Francesca Pisano

Infiammare sé stessi, accendere il proprio corpo, perché non può esserci una forma di ira volta alla distruzione dell’altro, una protesta che si esprima nell’omicidio di massa o nella violenza da parte di chi professa la filosofia buddhista ed è un monaco tibetano. Eppure il dolore esiste e la rabbia, la privazione, l’appello al rispetto della propria cultura, di un intero popolo, non possono essere taciuti.

 

Anche il buddhismo può manifestare il suo lato più umano e disperato se a professarlo è un monaco tibetano che non ha diritto alla libertà di vivere il culto. Dal 2009 a oggi sono state 118 le immolazioni dei tibetani che urlano nell’autodistruzione la loro offesa contro la dominazione cinese nel loro territorio. Gli ultimi disperati gesti di cui si ha notizia si sono verificati lo scorso mercoledì, nella provincia del Sichuan, nella prefettura di Abe, dove due monaci buddisti e una donna si sono dati fuoco.

 

Questa forma di lotta è rivolta contro le politiche attuate da Pechino nei confronti del Tibet. Esse hanno origine nei fatti accaduti tra il 1949 e il 1950, quando vi è stata l’invasione del Paese da parte dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese che, dopo dieci anni di progressiva dominazione, ha determinato la fuga in India del Dalai Lama, massima carica spirituale tibetana, con il seguito di circa 100.000 sostenitori.

 

Quello che la popolazione tibetana continua a subire a tutt’oggi è un vero genocidio culturale, l’esercizio della violazione dei diritti umani e l’oppressione della libertà sotto gli occhi di tutto il mondo. La Cina porta avanti una politica di sinizzazione e sottomissione che si concretizza nella persecuzione contro il credo religioso dei tibetani, i monaci e le monache infatti devono sottostare a sessioni di rieducazione patriottica, denunciare il Dalai Lama e a dichiarare obbedienza al partito comunista.

 

Le donne tibetane sono costrette a subire aborti e sterilizzazioni involontarie. Il diritto alla libertà di parola è violato sistematicamente e ogni forma di non assoggettamento è punita con la prigione, la tortura, le condanne senza processo, mentre le condizioni carcerarie sono disumane. E’ ostacolato inoltre l’accesso all’informazione ed è difficile penetrare dall’esterno quale sia la condizione di questa gente.

 

Lo status quo e il controllo vengono perpetrati attraverso la presenza costante di circa 500.000 soldati su tutto il territorio. Questi entrano nelle case e portano via persone o famiglie individuati come oppositori, senza che ovviamente esista alcun principio giuridico su cui possano fondarsi queste violazioni. Perché tutto resti uguale e diventi ancora più immutato le autorità cinesi si affrettano a far sparire immediatamente tramite cremazioni i corpi di chi si immola nel gesto disperato del darsi fuoco o subdolamente negano gli accaduti, talvolta invece arrivano a classificarli come atti di terrorismo.

 

Tuttavia, oltre a questa lotta estrema e autodistruttiva, non condivisa neppure dal Dalai Lama, i tibetani sono riusciti nel corso del tempo a costruire una forma di lotta più profonda e lungimirante. Si tratta del “Lhakar Karpo”, letteralmente “il Mercoledì bianco”. E’ una forma di lotta nonviolenta nata alla fine del 2008, in seguito all’insurrezione nazionale tibetana contro il dominio cinese. Essa si basa su tre elementi chiave: la de-collettivizzazione dell’attivismo, la cultura come arma e la non cooperazione.

 

Il primo punto si fonda sulla messa in pratica di una serie di azioni come ad esempio indossare abiti tibetani, tramandare nelle mura domestiche la lingua di appartenenza, mangiare cibo tipico, ascoltare la radio indipendente.

E’ l’esercizio di una forma di resistenza che si contrappone agli atti pubblici di protesta e che si fonda invece sul recupero dello spazio individuale in cui poter affermare la propria identità soppressa. L’elemento della cultura come arma consiste nel ricorso all’arte, alla letteratura, alla poesia e alla musica tibetane come strumenti di lotta pacifica per esprimere la propria fede al Dalai Lama, il desiderio di libertà e l’amore per la patria.

 

Attraverso il recupero delle basi della loro cultura i tibetani intendono pacificamente arrivare alla conquista di maggiori diritti politici. La non cooperazione consiste invece nel boicottaggio delle imprese di proprietà cinese, dal 2008 i tibetani hanno iniziato a comprare solo nei negozi di proprietà di connazionali o a mangiare solo nei loro ristoranti, costringendo molte attività cinesi a chiudere e mettendo quindi in pratica i principi Gandhiani della non cooperazione economica.

 

Tutto questo ovviamente non basta. Fondamentale appare il ruolo che può svolgere la comunità internazionale affinché la Cina sia inchiodata al rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 di cui peraltro è firmataria e delle tre risoluzioni approvate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite negli anni 1959, 1960 e 1965, attraverso le quali si esprime la condanna alle violazioni dei diritti umani e si richiama il paese a rispettare e garantire le libertà fondamentali del popolo tibetano.

 

D’altra parte non mancano le condanne da parte della Comunità internazionale e in diversi paesi si sono formati dei gruppi interparlamentari in favore del Tibet. Gli Stati Uniti, l'Austria, l'Australia e l'Unione Europea hanno inviato in Tibet in più riprese delle delegazioni parlamentari d'inchiesta. In Italia si è costituito nel 2002 l’intergruppo parlamentare Italia-Tibet che negli anni ha operato per sostenere l’autonomia economica, politica e culturale nella regione. Inoltre il Dalai Lama, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1989, ha incontrato molti capi di Stato coi quali ha intessuto relazioni volte a sollevare l’attenzione sulla realtà disumana che vive il Tibet.

 

Recentemente il segretario di stato americano John Kerry ha rilasciato un Rapporto che documenta la dura repressione e il deterioramento dei diritti umani in Tibet mentre, negli anni passati, numerose sono state le risoluzioni emanate dal Congresso degli Stati Uniti per esortare il governo cinese al rispetto dei diritti umani. Anche l’Europa ha partecipato alla condanna delle violazioni e richiesto il rispetto delle libertà democratiche per le popolazioni tibetane.

 

Nonostante ciò è necessario fare ancora molto e occorre proporre soluzioni che vengano affrontate attraverso il dialogo e l’individuazione delle responsabilità, sul tavolo delle trattative internazionali. Certamente avanza a livello mondiale l’importanza della Cina dal punto di vista economico e il suo ruolo di partner nelle relazioni commerciali, tuttavia non può essere questa la ragione a indurre ad abbassare la guardia e a rimandare l’individuazione di una soluzione pacifica.

 

Il Tibet ha bisogno di essere ascoltato perché la storia è piena di esempi di spettatori che poco o nulla hanno fatto contro le violazioni dei diritti umani perpetrate ai danni di intere popolazioni.


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