Più di 11mila bambini soldato sono stati liberati dalla schiavitù lo scorso anno, ma secondo le Nazioni Unite ce ne sarebbero ancora centinaia di migliaia costretti a servire la causa della guerra sia nell’esercito di stato che nelle milizie etniche; costretti in particolare a combattere dai Talebani in Afganistan, dal signore della guerra Bosco Ntaganda in Congo, dagli Shebab in Somalia, da Asar Dine in Male e da altri gruppi di terroristi ed eserciti sparsi per il mondo.
Secondo un rappresentante dell’Onu, sarebbero 19 i “piani di azione” firmati con il governo di alcuni stati e con altri gruppi. Uno fra questi è stato concluso dalla Birmania dopo cinque anni di trattative, un altro dal governo della Somalia per liberare le proprie file dai bambini di età inferiore ai 18 anni.
Radhika Coomaraswamy, che ha appena terminato un mandato di sei anni come rappresentante speciale dell’Onu per i bambini coinvolti nei conflitti, è fiduciosa che nel giro dei prossimi anni anche altri paesi come il Congo e il Sudan seguiranno l’esempio di quelli sopra. Nel caso di gruppi come i Talebani e gli Shebab, affatto intenzionati a scendere a patti a riguardo, l’unica soluzione secondo Coomaraswamy risiederebbe nella mobilitazione e sensibilizzazione della popolazione locale.
La recente pronuncia della Corte Penale Internazionale contro Thomas Lubanga rappresenta un passo importante nella lotta all’impunità segnando un punto a favore della difesa dei diritti umani e della funzione di deterrenza che la giustizia penale può esercitare nei confronti delle gravi violazioni di questi.
Tuttavia Peter Wittig, ambasciatore tedesco presso le Nazioni Unite e presidente del gruppo di lavoro sui bambini coinvolti nei conflitti, ha dichiarato che la prossima sfida consisterà nell’affrontare la questione dei gruppi ribelli che continuano ad arruolare bambini. In particolare si tratterà di “esercitare una maggiore e continua pressione su quanti ancora si rifiutano di conformarsi agli standard internazionali” in materia – continua Wittig anche attraverso “l’imposizione di sanzioni più rigide”.
E’ pure vero che ai fini dell’efficacia concreta di qualsiasi azione volta a sconfiggere – o quantomeno arginare l’impiego dei bambini nelle operazioni belliche, gli stati dovrebbero spingersi ben oltre la sola ratifica degli accordi, istituendo forme di collaborazione attiva, adeguando il proprio ordinamento e perseguendo concretamente i criminali.
Quasi i due terzi dei Paesi del mondo, infatti, hanno ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione sui diritti dei bambini sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati e altri hanno proibito il reclutamento e l’uso dei bambini soldato negli ordinamenti nazionali. Ciononostante la discrepanza tra gli impegni presi sulla carta da parte degli Stati e l’effettiva traduzione della “parola data” in pratica rimane ampia.
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