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15/11/24 ore

CIE, a Ponte Galeria caos e violazioni made in Italy


  • Francesca Pisano

“Un prodotto del caos legislativo e amministrativo italiano”, così lo ha definito Marco Pannella, in visita lo scorso 18 marzo insieme a una delegazione radicale. È il Centro di identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, recentemente salito agli onori della cronaca a causa di una rivolta scatenata dal rifiuto di un migrante nigeriano di essere rimpatriato per effetto di un decreto d’espulsione.

 

Il Cie di Ponte Galeria occupa un’estesa area nelle immediate adiacenze della Fiera di Roma, nella periferia sud-ovest della Capitale ed è il più vasto in Italia fra i centri di questo tipo, istituiti dalla Legge Turco-Napolitano del 1998, previsti dall’articolo 14 del Testo Unico sull’immigrazione (TU286/1998), modificato nel 2002 dall’articolo 13 della legge Bossi Fini.

 

Vi approdano, sotto l’egida della detenzione amministrativa, coloro che hanno commesso un illecito amministrativo come il non essere in possesso del permesso di soggiorno. Nei loro confronti non è possibile l’esecuzione immediata della misura di allontanamento dal territorio dello Stato.

 

Un’elevata percentuale di persone internate nel Centro proviene dal carcere o è vittima della tratta della prostituzione. Queste tipologie di trattenuti non dovrebbero trovarsi in un CIE. Gli immigrati provenienti da istituti penitenziari infatti avrebbero dovuto essere identificati durante l’espiazione della pena.

Il Centro inoltre non è in grado di fornire assistenza e protezione sociale per persone vulnerabili quali le vittime della tratta.

 

I trattenuti vivono una condizione di sospensione fra il rientro nei loro Paesi e la permanenza in Italia, in uno spazio circondato da sbarre di 5 metri, le più alte che si potessero costruire. L’oppressione è garantita inoltre da pannelli trasparenti posti al di sopra delle sbarre del settore maschile. L’intera area perimetrale è posta sotto la vigilanza di forze di pubblica sicurezza. Le aree comuni sono sottoposte a videosorveglianza.

 

All’interno i sospesi possono restarvi fino a un massimo di 18 mesi, in seguito al prolungamento del periodo di trattenimento. Il Centro può ospitare 360 persone: 176 uomini e 178 donne, vi è inoltre una sezione di 6 letti destinata alle persone transessuali. La maggior parte dei trattenuti proviene dall’area del Maghreb e dalla Nigeria.

 

Si ha notizia di tentativi di fughe di massa, atti di autolesionismo, pestaggi non denunciati per paura, scioperi della fame: sono disperati tentativi di sottrarsi alla condizione di sottovuoto. Fra essi si annoverano anche casi di suicidio, come quello nel 2012 del giovane trentenne egiziano Abdu Said. Il disagio si esprime con l’inquietudine, l’ansia, la depressione, l’aggressività, a questo si fa fronte spesso con “terapie” a base di sedativi.

 

Destano sconcerto alcune direttive adottate nei confronti dei trattenuti, come il divieto di possedere un pettine o una penna, l’obbligo di portare ciabatte o scarpe senza lacci, il non avere a disposizione un regolamento scritto a cui fare riferimento.

 

Il CIE di Ponte Galeria appare come una realtà separata dal territorio italiano che tuttavia lo ospita. Non è garantita ai trattenuti la libertà di colloquio con amici, rappresentanti di associazioni, medici, enti di tutela provenienti dall’esterno. In questo appare un’istituzione ancora più chiusa del carcere, se si considera che il detenuto può accedere a colloqui con terze persone, previa autorizzazione.

 

Il diritto alla salute è garantito attraverso un’assistenza sanitaria di primo livello, anche il personale medico specializzato delle Asl ha difficoltà ad accedere al Centro. Concepito inizialmente per trattenere persone per un massimo di 30 giorni, il C.I.E. di Ponte Galeria non si è adeguato ad offrire l’assistenza sanitaria e gli approfondimenti diagnostici adatti a un periodo di detenzione prolungato.

Queste condizioni rivelano incompatibilità con l’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali secondo il quale: Nessuno può essere sottoposto a tortura né pene o trattamenti inumani o degradanti.

 

Le associazioni, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica hanno difficoltà ad accedere alle informazioni e ai dati ufficiali su funzionamento, efficacia e costi del Centro, attualmente amministrato dalla cooperativa Auxilium.

 

Il trattenimento presso i CIE, pur non configurandosi come misura detentiva finalizzata all’espiazione di una pena, incide sulla libertà personale, tutelata dall’articolo 13 della Costituzione italiana, in quanto diritto fondamentale della persona, riconosciuto anche allo straniero comunque presente nel territorio dello Stato, sia egli regolarmente o irregolarmente presente. (art. 2 del Testo unico sull’immigrazione)

 

Secondo il rapporto “Le sbarre più alte”, realizzato nel Maggio 2012 dall’organizzazione Medici Per i Diritti Umani, il Centro risulta costoso e oltre tutto poco efficace come strumento di contrasto all’immigrazione irregolare. Ne deriva una valutazione di inadeguatezza rispetto alla tutela della dignità e dei diritti fondamentali dei detenuti, come per il resto dei Centri di identificazione ed espulsione italiani (13 in tutto). Conclude MEDU: Il sistema della detenzione amministrativa sembra deputato a identificare e punire più che a sorvegliare ed espellere. “L’istituzione, inoltre, produce stigma nei confronti dei migranti trattenuti, rafforzando nell’opinione pubblica l’associazione deplorevole tra migrazione e criminalità”.


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