“E poi c'è Gazebo, che va benissimo. È vero che me lo sono trovato, ma l'ho anche valorizzato. È l'unico esempio in Italia di giornalismo gonzo”. Con queste parole il direttore di Rai3 Andrea Vianello si è appuntato sul petto la medaglia per aver portato la puntata settimanale del programma condotto da Diego “Zoro” Bianchi a tre appuntamenti di circa 40 minuti in onda martedì, mercoledì e giovedì.
Nella sua prima stagione – dal 3 marzo al 19 maggio di quest'anno – il programma andava in onda la domenica, sempre in seconda serata e con una media di 670mila spettatori.
La valorizzazione voluta dal direttore Vianello si è dimostrata un successo a metà: il martedì, dopo il talk show politico di punta della rete Ballarò (un formidabile traino, nonostante Floris “sfori” costantemente), Gazebo supera ormai con una certa regolarità il milione di spettatori. Il giovedì, con la sua media di 456mila spettatori, è il giorno più debole ma in questo caso è soprattutto la concorrenza a fare la differenza. Non è infatti un caso che gli ascolti più bassi (347mila spettatori) Gazebo li abbia fatti quando si è scontrato con la puntata di Servizio Pubblico del 17 ottobre dedicata al famigerato bunga bunga e incentrata sulle rivelazioni dell'attrice Michelle Bonev.
Allontanandoci per un attimo dai freddi numeri, tutto sommato incoraggianti per il programma di Bianchi, quale potrebbe essere un provvisorio bilancio di Gazebo dopo un mese e 16 puntate? Non è un atto di lesa maestà segnalare che conduttore e personaggi fissi (l'onnipresente giornalista de l'Espresso Marco Damilano e il simpatico tassista Mirko Matteucci, “in arte” Missouri4) hanno l'aria un po' stanca, e purtroppo lo mostrano sempre di più.
La politica logora anche chi la racconta nel modo più scanzonato possibile. I tempi del programma sono troppo lunghi e il piglio sarcastico del conduttore non può sempre salvare la situazione. Inoltre nelle ultime incursioni in piazza – penso alla manifestazione del 31 ottobre svoltasi a Roma – alcuni toni paternalistici di Bianchi sulle “violenze che rovinano le proteste” hanno lasciato alquanto interdetti: il vecchio Zoro, nonostante la sua nota vicinanza al Partito democratico (non esattamente una formazione di estrema sinistra), non sarebbe mai incappato in commenti da “signora mia, non ci sono più i manifestanti di una volta”.
Il rapporto col web e in particolar modo con Twitter strappa a volte una risata, ma nell'economia di un programma televisivo dovrebbe rappresentare un “di più” e non già il momento clou della puntata, come capita spesso quando Diego Bianchi presenta la classifica dei tweet (quasi sempre di esponenti politici) più sconclusionati. Solleticare l'ombelico del web offre dei vantaggi (#Gazebo su Twitter fa tendenza, letteralmente), ma alla lunga rischia di ridursi ad un gioco gradevole quanto effimero.
L'unico a non deludere mai è Makkox (Marco Dambrosio) con le sue efficaci vignette animate. Pur restando una spanna sopra tutti gli altri programmi di approfondimento politico che affollano i palinsesti italiani, Gazebo sta tuttavia mostrando i limiti evidenti di un esperimento dalle gambe ancora fragili.
A volte le cose belle, per essere davvero valorizzate, andrebbero pensate più a lungo e centellinate con parsimonia.