Promossa dalla Regione Lazio e realizzata da LAZIOcrea, curata da Silvia Pegoraro, da un’idea del gallerista e collezionista Aldo Marchetti, in collaborazione con l’Archivio Franco Angeli di Roma (presieduto da Maria Angeli, figlia dell’artista), è un percorso antologico, attraverso 74 opere uniche di Angeli (tra cui molti interessanti inediti), tutte provenienti da collezioni private: dagli esordi informali del 1957-58 al figurativismo geometrico e metafisico degli anni ’80, sino al 1988, anno della sua scomparsa.
In questi giorni di magra per l’arte, non si vede una mostra decente neanche a pagarla. Infatti i musei d’arte moderna sono vuoti come sempre, ma abbiamo la fortuna di trovare una mostra interessante al WE GIL, un bell’edificio di epoca fascista progettato da Luigi Moretti, tanto bello che nemmeno si è mai pensato di abbatterlo, anche se gli improbabili colori dati alle vetrate ne rivelano le intenzioni, e per questo riciclato in spazio espositivo da edificio educativo dei giovani fascisti quale era.
Com’è noto, GIL significa Gioventù Italiana del Littorio (littorio=fascio), il che dovrebbe fare del monumento il simbolo del Ventennio, il riferimento ideologico per eccellenza che per primo dovrebbe fare le spese del nuovo corso culturale intrapreso dalla Liberazione in poi. E invece no.
Siccome tutte le imprese culturali sono l’inverso di quello che dovrebbero essere, mai gli addetti dicono quello che effettivamente ti propongono, ma te lo lasciano vedere senza spiegazioni esaustive, così ignorante eri e tale rimani: è questa la cultura vigente.
Il fenomeno Franco Angeli e la sua arte va invece spiegato, non solo per capire i suoi quadri ma anche perché dentro quelle cornici, piaccia o non piaccia, ci sta uno spaccato considerevole della nostra storia e della nostra cultura negli anni del dopoguerra, della guerra fredda, del Vietnam e della contestazione, che coincidono con l’infanzia, la giovinezza, gli studi e le lotte di buona parte di noi; fenomeno che spiega il presente.
È stato di successo, Angeli, perché ha avuto la fortuna di accedere come adepto a una setta artistica vincente, o, per meglio dire, in quanto tesserato del PCI, ha fatto carriera perché ha avuto la fortuna di entrare tra gli esponenti della “scuola di piazza del Popolo”, una cerchia di artisti sorta nel 1958 in occasione della festa dell’unità di Cinecittà, dove la sezione del quartiere del PCI organizzò una mostra collettiva.
A questo nucleo originario man mano si unirono altri artisti del partito e tra questi Franco Angeli. Dico questo, perché erano anni in cui la tessera di partito contava tanto e diceva tutto su quello che era l’Italia di quei tempi, tutta clientelare, tutta spartita tra partiti, tutta da far schifo. Ricordo pure agli smemorati che se non eri stalinista la tessera del PCI non la potevi prendere e se non ne eri un fanatico non entravi in sede ed eri subito espulso.
La DC “clientelarizzava” il PCI con il sottogoverno e gli appaltava l’arte come compromesso di potere; di conseguenza, se avevi la tessera del PCI diventavi artista e anche insegnante nelle scuole o nell’accademia. Se per giunta eri di gran successo come Angeli campavi alla grande e ti davi alla vita mondana, amato dai critici come dalle nobildonne.
Sarà brutto parlare così, forse farà male a molte persone, però le carriere erano frutto di trame che non avevano niente a che fare con il lavoro, perché a quel tempo ci stavano gli amici e i nemici, chi stava con noi e chi dall’altra parte, la guerra partigiana era finita ma covava una guerra civile strisciante mai assopita che faceva vittime e trionfi in continuazione.
De Chirico ad esempio, che è stato il fondatore o tra i primi dell’avanguardia storica, dal dopoguerra in poi era continuamente vessato, quasi perseguitato, perché non aveva la tessera del PCI, e alla fine fu culturalmente fatto fuori, “espulso” pure lui, come anni prima avvenne in Francia per Salvador Dali da parte di André Breton.
Tutti gli artisti che vantavano di essere moderni o d’avanguardia erano del PCI: per il partito era inaccettabile non avere tra i suoi il personaggio più importante della storia. De Chirico arrivò a essere quello che era senza nessuna tessera e senza credo ideologico: un vero schiaffo per il PCI e per la concezione gramsciana della cultura, una jattura per tutti quelli che vantavano d’essere la vera avanguardia nell’arte. In quel tempo insomma si era formata quella cultura di appartenenza partitica che ci accompagnerà per sempre.
Non ci vuole un esperto per capire che Franco Angeli ha fatto carriera nel bel mezzo della guerra fredda: una quantità considerevole di svastiche, falce e martello, piccole e grandi bandiere rosse con tanto di Che Guevara e Fidel Castro campeggiano nella mostra al WE GIL, a testimonianza di un sentore quasi archeologico se si considera che, adesso, ci si guarderebbe bene da ostentare questi simboli con tanto fanatismo come si faceva allora.
Chiunque può essere invasato di qualsiasi idea, ma i curatori hanno davvero pensato a che cosa mettono in mostra? Almeno uno straccio di testo a supporto di tale “estetica” sarebbe stato necessario, specie in questo periodo in cui ci troviamo coinvolti in una guerra che ha radici nell’astio che gli ucraini hanno verso i russi per le loro politiche risolutive.
Ci sarebbe anche un altro problema non secondario, di natura storico-artistica, che sta in quella che conosciamo come Pop Art. La falce e martello ripetuta in serie in varie fogge, come pure le tante bandiere rosse che si vedono nei quadri di Angeli non sono effigi di consumismo come nei quadri americani, ad esempio di Warhol, che fa dei marchi dei prodotti di largo consumo delle opere d’arte.
Suppongo che Franco Angeli, che non nascondeva le sue idee politiche, usasse la falce e martello per simpatia per tali simboli e non per rifiuto o avversione, a differenza degli artisti americani che alla Campbell non ci credevano per niente, anzi la disprezzavano come prodotto di largo consumo ed eleggevano la rappresentazione del barattolo di pomodoro a emblema della deriva consumistica e sociale.
Quindi abbiamo due concezioni opposte, da un lato la fidelizzazione di Franco Angeli al quale il comunismo piaceva al punto da cercare di coinvolgere lo spettatore, dall’altro, in USA, l’intento di svincolarsi dalla pubblicità persuasiva dei prodotti di consumo, dalla manipolazione del potere commerciale.
Due valori diametralmente opposti che gli storici dell’arte arbitrariamente mettono insieme pure con lo stesso nome, Pop. Lo stile italiano si dovrebbe definire semplicemente fanatismo politico, ostentazione ideologica estrema, manifestazione identitaria del proprio credo politico, che peraltro, unita all’altro forte valore simbolico della location fascista, assume connotati psichiatrici. Forse la mostra poteva intitolarsi “Follia ideologica. Installazione site specific …”.
Ma bando alle ciance: il fascino dell’arte contemporanea è tutto fondato sull’incomprensibilità, sul criptico, sul mistero che conosce solo il critico e non il fruitore che resta all’oscuro e sempre più allibito partecipa stupefatto come spettatore passivo di un fenomeno irraggiungibile ai più. Arte che fa dei grandi maestri chi usa gli stencil, gli stessi che usano i bambini, per riprodurre in serie le stelle della bandiera americana e l’aquila del dollaro.
Ma c’è chi è bravo. E chi è più bravo. Come nella Fattoria degli animali di Orwell c’è chi è uguale e chi è più uguale.
Se ti avessero pescato in ufficio con uno stencil per disegnare sagomette ti avrebbero licenziato. Franco Angeli invece è diventato grande artista e ricchissimo tanto da fare festini da far rimpiangere che non ci fosse ancora Dagospia, nella sua lussuosa villa sull’Appia Antica, con l’aristocrazia romana. (Alla figlia Maria, avuta da Donna Livia Lancellotti, presente fra gli organizzatori della mostra, vanno tutte le scuse se qualcosa di ciò che ho scritto le suonerà offensiva, ma niente di personale qui faccio lo storico).
Le descrizioni caricaturali sono frutto del disagio che provo al pensiero che stiamo naufragando in due triangoli delle Bermude: uno a occidente, con Bruxelles, Capitol Hill, San Paolo in Brasile, l’altro in Oriente, con Ucraina, Iran, Cina, e con in mezzo il continente africano che tenta di salvarsi trasferendosi solo in una parte del continente europeo che tutto intero è dieci volte più piccolo dell’Africa.
Siamo troppo fragili e deboli, specie con questa produzione culturale che non offre stimoli né visioni…
Franco Angeli-Opere 1958-1988
al WE GIL
Dall’8 dicembre 2022 al 26 marzo 2023
Largo Ascianghi 5, Roma
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