Negli spazi sottostanti alla contemporanea mostra di Zaha Hadid, al MAXXI di Roma, si trova la mostra di Yona Friedman (Budapest 1923) uno tra i guru del futuro tra i più famosi al mondo sin dagli anni ’50. Sempre al centro dell’attenzione culturale internazionale ha conquistato un ruolo talmente importante che è come se le sue utopie fossero veramente esistite.
Impera nello spazio a lui dedicato al MAXXI una mega-installazione di cavi di metallo che richiama alla sua struttura urbanistica di case e strade che dovrebbero essere l’habitat umano. La terribile visione del mondo supertecnologico che si aveva nel Novecento (quando la coscienza ecologica non si sapeva cosa potesse essere) permetteva di fare ipotesi di vita talmente aberranti che chi le proponeva si conquistava il fascino dei politici illuminati e dei numerosi intellettuali che monopolizzavano la scena dei salotti buoni e dei media, non ché la penetrazione nei gangli culturali più prestigiosi al mondo.
Nonostante che tante cose siano cambiate, ma non nella direzione di questi profeti, personaggi del genere campano ancora di questo fascino al punto che la mostra in questione ne è l’ennesima conferma. Prestigio frutto degli apparati culturali, università in testa, Yona Friedman è un’icona dell’architettura a cui tutti si inchinano rispettosamente, il che si può notare nelle persone in visita.
Disegni e proiezioni di fantasiose immagini compresi i fumetti si affastellano come le diramazioni delle sue megastrutture che affollano le sale del MAXXI formando un ambiente caotico che stupisce per complessità formale.
La riproduzione di uno dei moduli del Museum of Simple Technology (Madras, India, 1982) realizzato negli anni Ottanta da un gruppo di cestai indiani secondo le istruzioni fornite dall’architetto tramite il Communication Centre of Scientific Knowledge for Self-reliance (Centro di divulgazione scientifica ai fini dell’autosufficienza) è una tra le sue architetture più riuscite.
Questa rimane la sua realizzazione più famosa, una copertura di cavi di metallo piegati ed intrecciati ripetutamente, simile a quelle che si vedono nei roseti. Risalta la discrepanza tra i presupposti futuristi e l’arretratezza o il minimalismo delle sue soluzioni. Uno tra i motivi architettonici che resero famoso Friedman erano quelle aste che, legate agli estremi, formano gabbie di spazi che a seconda dei bisogni l’utenza sceglie come abitare. Spero di sbagliarmi, ma se si pensa che Friedman molto ha lavorato per la cooperazione in Africa, forse le ragioni dell’incessante esodo da quelle terre trovano giustificazione.
Che volete, l’utopia è l’utopia, e se poi non si rivela utile è comunque giustificabile in partenza. Se vedete questa mostra dal punto di vista delle megainstallazioni fantasiose rimarrete soddisfatti (ad esempio superano di molto quella dell’igloo di Merz); e rimarrete stupefatti di avere sopra la vostra testa un soffitto talmente pieno di visioni fantastiche che vi costringerà a stare con il naso all’insù per parecchio tempo.
“Yona Friedman. Mobile Architecture, People’s Architecture”
a cura di Gong Yane Elena Per Friedman / fino al 29 ottobre 2017
organizzazione: Power Station of Art, Shanghai
catalogo con testi di HouHanru, Gon Yang, Manuel Orazi e un’intervista inedita a Friedman di Elena Motisi
(Quaderni del Centro Archivi del MAXXI Architettura)
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